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La nana bianca

Tutto era pronto. L’ape regina l’aveva preordinato. Ognuna al suo posto. Lei dietro le quinte a godersi lo spettacolo.  Della regina non aveva l’aspetto. Anzi sembrava abbastanza dimessa. Un fisico poco attraente, un fare esagitato, inquietante, fin troppo entusiasta.

La bocca era uno squarcio sul viso. Lei si nutriva di miserie e d’odio e li regalava anche. Il tono era sommesso, fatto di bisbigli declinati in rima con il proprio ego.

Le spie erano piazzate. Una in ogni luogo e poi insieme a riferire i dettagli. I gesti erano ipocriti, persino le domande erano ambigue. Tutte al suo servizio. La regina restava protetta, barricata.

L’assemblea stava per avere inizio. Bisognava raggiungere l’obiettivo. Uscire con una posizione precisa. Bisognava lavorare di strategia e ambivalenza. Fare un po’ di terra bruciata attorno, racimolare consensi con toni vittimisti, spostare i ragionamenti, indebolire il fronte avverso imputandogli la responsabilità di creare spaccature. Un po’ di dissimulazione. Un po’ di bassa speculazione sulle ignoranze altrui. Qualche spunto medioevale, che può sempre tornare utile. Macchiavelli, quello del fine che giustifica i mezzi, contro l’ingenuo idealista intellettualmente onesto. Una lotta impari. Senza piani di difesa preventiva. Solo un’intenzione: tenere la luce sempre ben accesa.

C’erano le iscritte a parlare. Si va in scena.

Si può sempre dire che certi luoghi sono irrangiungibili, difficili. Non si insegna a raggiungerli. Meglio mantenere le masse nell’ignoranza per tenerle a bada, per beccarsi qualche grammo di consenso quando gli si dirà che il tuono è ancora un dio e l’e-mail invece un diavolo.

Si può sempre dire che vanno valorizzate le esperienze, senza specificare quali. Diversivi, depistaggi, spicchi di teatralità. In fondo si sa che le uniche esperienze che verranno “valorizzate” saranno quelle imposte dalla direzione. Tutte le altre sono fuori “norma”. Perchè esiste un diritto “naturale”, blindato, anche nelle assemblee che osteggiano altre normatività.

C’era di fondo un’idea presuntuosa che iniziava e finiva nella solitudine di una nicchia sempre più dimezzata.

Fuori, le altre continuavano a muoversi, eppure all’assemblea si pensava quasi di essere sole al mondo, come si potesse ancora interrompere il sanguinamento.

Un’assemblea è un po’ come un corpo umano. Ti capita di vedere le ferite. Di solito le ignori, qualche volta tenti delle mediazioni e allora disinfetti, metti un minuscolo cerotto.

Poi succede che le ferite ricominciano a sanguinare tutte assieme e allora si prende esempio dagli apparati repressivi. Si isolano, si bruciano e si rendono inattive. Come tanti punti morti di una pelle sempre più grigia. Con tante zone non più irrorate dal sangue.

Così c’e’ chi pensa di aver risolto il problema. Via il nemico, via il conflitto. In fondo è il sogno di ogni militante: un’assemblea senza opposizione politica, dove tutto viene votato all’unanimità, dove tutti approvano le proposte della direzione, dove la direzione può persino parlare di democraticità perché tanto non c’e’ più nessuno a contraddirla.

Ci sono assemblee che finiscono così. Come stelle destinate a diventare buchi neri. Implodono. Si reggono in piedi sul ricatto incombente del pericolo che c’e’ fuori. Perché tutto il resto è marcio. Perché tutto il resto deve essere sbagliato. Altrimenti non si saprebbe su cosa fondare la propria idea di giustezza.

Così cominciano le tirannie. Il pericolo è la’ fuori. Noi siamo quel che c’e’ di meglio, dobbiamo stare insieme per forza, non abbiamo scelta. Facciamo finta di essere tutti d’accordo e di non sapere che c’e’ una zona che forza l’altra. Facciamo finta che tutto vada bene. I dissidenti mandiamoli al confino. Tutt’al più possiamo trovare qualche buon argomento per screditarli.

Si instaura il moralismo della militanza. Giudizi che incidono sui comportamenti privati, pulsioni personali che si trasformano in pettegolezzi, mobbing insistente che neutralizza le voci dissonanti.

L’ape regina in questo ha un ruolo preciso. Può essercene una, o più d’una. Convinta di avere ragione e di non avere nulla da imparare. Convinta che sia meglio che i sudditi restino tali piuttosto che insegnare loro un percorso di partecipazione allargato.

I sudditi sono facili da dominare. Come truppe senza anima. Come eserciti senza cuore. Come api operaie senza cervello.

Nelle assemblee il dominio si esercita facilmente. Basta attuare la strategia dei cammelli, con interventi calibrati e piazzati tra una esternazione e una testimonianza.

L’ape regina era così. Dalla sua posizione protetta incitava la massa che urlava “buuuu buuuu” ad ogni intervento non utile alla causa.

Le altre non avrebbero mai ammesso di essere state condizionate. Ragionavano con la propria testa, loro. Erano tante individualità libere e autodeterminate, loro. Le api regine se protette si fanno corporativismo. A ciascuna il proprio branco. Pronte a trovare terreni di conquista e a colonizzare. Perché gli umani hanno una sete di potere asessuata, ma le donne in questo possono essere più sciocche, mediocri e perfide.

In fondo però c’e’ un trucco. I tiranni esistono se gli presti attenzione. Se già li ignori loro non esistono più. I tiranni a volte si sconfiggono così: con l’indifferenza. Alla fine capita sempre che restino tutti soli a presidiare l’infinito… in venti.

Senza corpi da dominare, dell’ape regina non rimase più niente e l’assemblea che era una stella luminosa d’improvviso balzò avanti e diventò una nana bianca.

L’ultimo intervento dichiarò: “Dobbiamo dare un’idea positiva, siamo in tante, fortissime, abbiamo fatto un’ottimo lavoro.” Dalle sfoltite zone d’ascolto, il gelo. Tutte si alzarono, alcune consapevoli di dover continuare forse ancora un po’ la commedia per incapacità di vedere una alternativa, altre con la mente già proiettata verso un altrove più compatibile con il proprio bisogno di “crescere”. Sipario.

—>>>Si tratta di una storia inventata. Ogni riferimento a fatti e persone è puramente casuale.

Posted in Racconti 2008, Racconti di movimento.

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