Continuo come e quando posso la mia ricerca sull’aggressività e sul bullismo al femminile. Giuro che appena le emergenze laiche e femministe di questo paese finiscono troverò il tempo di scrivere tutto per bene e farvi un giusto report di quello che ho trovato fino ad ora – testi, filmati, racconti, storie, statistiche, manuali di autodifesa. Per ora accontentatevi di un buon pezzo scritto per D di Repubblica da Andrea De Benedetti che coraggiosamente ha deciso di intrufolarsi in questo terreno difficilissimo e scomodo oltrechè davvero poco battuto. L’articolo comincia con la descrizione della “piaga” sociale – e già qui parrebbe cadere nei soliti luoghi comuni – poi però l’autore si fa domande intelligenti e prova persino a dare delle risposte o quantomeno a porre indispensabili dubbi. E nella quasi totale assenza di riflessione su questo tema, dove tutto sembrerebbe scontato, un dubbio è già una gran bella cosa.
C’e’ di sicuro la stigmatizzazione di un comportamento negativo. Non perchè risiede nei corpi di belle femminucce che devono seguire un copione da educande dell’800, ma perchè è un atteggiamento che noi donne conosciamo bene per averlo praticato o subìto e sappiamo anche che dopo aver acquisito la consapevolezza che abbiamo pur diritto ad essere poco delicate, più maschiacce – come direbbero i benpensanti – finalmente più aggressive senza dover giustificare nulla a nessuno [ci siamo conquistate il diritto ad essere cattive perchè: le brave bambine, vanno in paradiso ma quelle cattive vanno dappertutto! :)]ci resta da affrontare come difenderci dalla cattiveria e dalla aggressività di quella che dovremmo considerare a forza nostra sorella. Le donne tra loro fanno fatica ad allearsi. Noi facciamo fatica a non ferirci a colpi di parole velenose e concetti iniettati di acidume dall’inizio alla fine. Le donne tra loro più spesso non sono affatto solidali.
Nei libri di storia le donne condannate al rogo dalla inquisizione spesso venivano denunciate da altre donne per motivi futili: la gelosia, l’invidia… Ancora oggi se una donna viene stuprata, e lo sappiamo bene, esistono molte altre donne che le danno della puttana e danno la colpa a lei. Infine succede spesso, anche in contesti per così dire militanti, che le donne si guardino in cagnesco perchè sono competitive, inevitabilmente prime donne, e perchè il politico è personale e il personale è politico e uno scambio di opinioni diventa motivo per tirare fuori una “atavica antipatia già esistente ammantata di confronto e scazzo sui massimi sistemi” [e rubo una frase di Imprecario che sa raccontare di militanza con l’ironia che serve per togliere sacralità persino ai nostri altarini]. Se si è consapevoli di questo e si affronta la questione in maniera diretta forse si risolve e forse no. Certo che ad esserne consapevoli è già più semplice che si riesca davvero, prima o poi, a costruire alleanze sincere tra donne…
Pensateci: ci sono donne, “amiche”, mamme, sorelle, figlie, colleghe di lavoro, cape, compagne di scuola o di università, compagne di militanza che per un motivo o per un altro vi hanno ferite, estromesse, hanno fatto ostracismo, vi hanno boicottate, isolate, calunniate, allo scopo di togliervi di mezzo, cacciarvi dal loro contesto, farvi malissimo, eliminarvi causandovi morte sociale (ed è successo qualche volta che si sia tradotta in morte fisica)?
Se rispetto ad un uomo è facile dire che vi ha fatto del male, vi risulta invece semplice trovare solidarietà rispetto alle azioni devastanti e subdole che altre donne mettono in atto contro di voi? Come fate ad esempio a difendervi dal pettegolezzo? Sapete che il pettegolezzo è l’arma più cruenta e ambigua e per questo anche la più difficile dalla quale difendersi? Sapete come ci si difende da questo tipo di violenza?
Ebbene, io continuo a raccogliere dati, suggerimenti, storie. Raccontatemele se volete. Nel frattempo leggetevi questo pezzo. E prima o poi scriveremo un buon manuale di autodifesa che si riferisca anche a questo tipo di violenze! Buona lettura!
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INCHIESTA
Sul vocabolario non esistono, ma nelle scuole sì. A differenza dei maschi, però, feriscono con parole e sguardi
di Andrea De Benedetti
Ci sono parole che nascono col pregiudizio incorporato. Che pretendono di descrivere la realtà escludendone un’ampia fetta già in partenza. Bullo, ad esempio. Un termine che evoca mondi e comportamenti prettamente maschili – il branco, l’esercizio del potere, la sopraffazione, la violenza fisica – e che in italiano non contempla neppure il genere femminile. Provate a digitare bulla sul vostro programma di videoscrittura e verrà marchiata all’istante dall’infamia ortografica di una sottolineatura rossa. Il vocabolario non la registra, dunque ufficialmente non esiste.
Ma i vocabolari sono macchine lente. Così lente che mentre i lessicografi organizzano ponderose riunioni per decidere se concedere o meno il permesso di soggiorno a una determinata voce, il concetto è già ampiamente penetrato nell’uso e ha messo su casa nella coscienza linguistica delle persone. Succede così che, mentre la parola bulla aspetta ancora di uscire dalla clandestinità ed essere regolarizzata, le bulle sono già da tempo diventate una piaga sociale non meno preoccupante di quanto lo siano i bulli maschi.
Basterebbe l’esperienza a dimostrarlo, ma per ogni evenienza lo confermano anche le statistiche. L’ultima, realizzata dalla Società Italiana di Pediatria su un campione di 1.200 studenti delle scuole medie, racconta che il 64% degli intervistati non ritiene il bullismo una prerogativa esclusivamente maschile, bensì un flagello unisex.
È, quello femminile, un bullismo sottile, subdolo, intellettualizzato. È un bullismo che non ha bisogno dell’abuso fisico per essere spietato, che non finisce su YouTube o sui telegiornali, che non provoca provvedimenti ministeriali né sanzioni disciplinari da parte delle scuole. È un bullismo che c’è ma non si vede, di cui si sa ma non si parla, che lascia intatto il corpo ma intossica l’animo. Rimangono, rispetto alla versione maschile, alcune costanti universali legate ai ruoli (una vittima e uno o più carnefici), all’età (soprattutto adolescenti e preadolescenti) e al contesto (in genere la scuola). Cambiano però armi, campo di battaglia e strategie.
La prima cosa a ferire, quando una donna o una ragazzetta decidono di fare del male, è la parola. Che non ha neppure bisogno di essere pronunciata per offendere e per umiliare. Basta nasconderla in un sussurro, in un pettegolezzo, in un foglietto ripiegato, in un mezzo sorriso: immaginarla, per la vittima, può essere più doloroso che ascoltarla o leggerla. Denunciarla, invece, sarebbe semplicemente impossibile.
Poi c’è lo sguardo. Una rasoiata insolente che fende il cuore di chi la riceve come un colpo d’accetta. Chi non è in grado di reggerlo, chi abbassa le palpebre, chi si volta dall’altra parte come quando viene colpito da un raggio di sole improvviso e abbagliante, ha già perduto un pezzo della guerra. Sui manuali di self help si dice di non cedere, di non far finta di niente, di provare a restituirlo, ma chiunque sia stato almeno una volta in minoranza all’interno di un gruppo sa quanto sia difficile affrontare un muro di occhi ostili senza sentirsi annodare la gola.
Infine c’è il sorriso. Che però non è mai un sorriso, ma una maschera. Guai a lasciarsi ammaliare da quel travestimento, a confonderlo con un’offerta di armistizio e a ricambiarlo con un altro sorriso, magari un po’ troppo docile e accogliente: la bulla in questione ti risponderà deformando la fila composta e cordiale di denti in un ghigno o una risata sguaiata, e a quel punto sarà la disfatta.
La vittima della bulla, in genere, è anche lei una ragazzina; una ragazzina che, da buona vittima, subisce, e più subisce più rimane inchiodata al suo ruolo, incapace di reagire, di ribellarsi, anche solo di raccontare. Tanto, anche se lo facesse, non potrebbe dimostrare nulla, ribattere nulla, risolvere nulla. Avventurarsi a chiedere spiegazioni significherebbe esporsi all’ulteriore schiaffo di una beffarda smentita, magari avvelenata dalla contraccusa di narcisismo per aver anche solo immaginato – inguaribile sfigata – che altri potessero perdere tempo a parlare di lei.
Nell’imbuto di frustrazione e isolamento in cui precipita, spesso la vittima riesce persino a sentirsi in colpa, scivolando ancor più sulla china dell’amor proprio e abbandonandosi a un destino che è quello di tutto il genere femminile. Perché le donne si saranno anche emancipate, saranno anche riuscite a emergere sul lavoro e nella vita sociale, avranno anche liberato quella carica aggressiva rimasta impigliata per millenni nella ragnatela delle convenzioni sociali, ma sovente continuano a portarsi appresso, mischiato al codice genetico, l’atavico gravame culturale di non sentirsi all’altezza.
Spesso non c’è un motivo preciso per cui la vittima diventa una vittima. L’insicurezza, certo. Ma anche l’improvviso e casuale innescarsi di una dinamica perversa all’interno del gruppo, dentro il quale si formano grumi di socialità che spesso sono fondati su un’emarginazione, sulla confortevole percezione di appartenere a qualcosa a cui gli altri non hanno accesso. È la logica del branco, ed è una logica che funziona solo se c’è qualcuno che, per una scelta del tutto arbitraria, non ne fa parte.
Di questi branchi, le ragazze non sono soltanto silenziose complici, ma spesso si convertono in leader a tutti gli effetti, trascinando con sé personalità più deboli, che magari hanno alle spalle un passato di vittime e a un certo punto trovano un ruolo e una legittimazione sociale nella sottomissione al capo.
Rispetto al paradigma di Dan Olweus (il primo a formalizzare negli anni Settanta caratteri e dinamiche del bullismo) e, soprattutto, rispetto alla lettura “patologica” che ne fanno sistematicamente politica e istituzioni, gli studi sul fenomeno al femminile rivelano una realtà più complessa, in cui convergono fattori sociali, etologici e di genere.
Da questo punto di vista, la bulla non è soltanto la scoria umana e sociale prodotta da una famiglia troppo permissiva o troppo difficile, ma è anche, e soprattutto, un indizio. Un indizio del fatto che le donne – tutte le donne, non solo le ragazzine – una volta completato il recupero della loro fase istintuale, possono scoprire un giorno di essere cattive, di voler fare del male, persino di saper uccidere.
E’, in fondo, l’esito ineluttabile di ogni processo di conoscenza, al termine del quale, da Edipo in avanti, si trova sempre il pozzo profondo dell’essere. Quella ragazzina che umilia, calunnia e annichilisce la compagna di banco non lo ha ancora scoperto. Ma presto ci arriverà anche lei.
self help
A lungo ignorato, dimenticato e rimosso, il problema del bullismo e, in generale, dell’aggressività al femminile trova oggi asilo in un’ampia bibliografia e in una ancora più ampia rete di blog e forum a tema.
Tra i libri da consigliare, Donna contro donna di Phyllis Chesler (Saggi Mondadori), una spietata fenomenologia della violenza declinata al femminile; L’aggressività femminile di Marina Valcarenghi (Bruno Mondadori), analisi della questione tra mito e antropologia in cui si propone l’idea di una mutazione istintiva della donna legata a uno stato di necessità e a esigenze conservative della specie; e ancora il classico Donne che corrono coi lupi, di Clarissa Pinkola Estés (Feltrinelli), un’indagine, a partire dalla fiaba, di quel lato del femminino la cui naturalità è stata repressa al punto da farla divenire timorosa e non autosufficiente, priva di iniziative e ingabbiata nell’assenza dell’auto-stima.
La rete, ovviamente, è il solito oceano di informazioni da filtrare. Tra guide di self help (www.girlpower.it), pagine di associazioni impegnate nel settore (www.aquiloneblu.it), video in cui si raccontano storie di malavita al femminile (http://www.youtube.com/results?search_query=Gangstresses), e interventi di studiosi/e a carattere accademico (da raccomandare quelli di Ada Fonzi e Silvia Vegetti Finzi), vale la pena di segnalare il blog di Enza Panebianco (http://femminismo-a-sud.noblogs.org), che raccoglie dati, storie e suggerimenti per affrontare il problema. Che un giorno, dice l’autrice, vorrebbero diventare un vero e proprio manuale di autodifesa per le vittime: “Non serve il karate, ci vuole forza interiore. La più difficile da trovare”.