C’era un ragazzo, oggi, sul treno. Aveva orecchie grandi, un grosso naso, sovrappeso, grassocce mani, palmi in su, che ricadevano sulle gambe, una donna sulla sessantina o forse meno, panciuta, meridionale, di quelle che “di mamma ce n’è una sola” (e menomale, perché ad avercene più d’una…), fuori dal finestrino, sguardo fisso su di lui, tentando di attirarne l’attenzione.
E’ premurosa, dico, è oppressiva, traduco, e lo decido quando vedo quel ragazzo che sfugge l’occhio materno, lo incontra giusto un attimo per fare un cenno con la mano, era un ciao ma sembrava un vaffanculo e poi il treno muove i primi giri di ruota, la donna sparisce all’orizzonte, così il suo occhio preoccupato, e lui assume una espressione nuova, più rilassata, direi sollevata, e le sue mani prendono una piega differente, le gambe si accavallano, resta ancora a bocca aperta, guardando un po’ allupato una giovane coppia che si scambia confidenze.
La mamma avrà messo nella sua borsa tutto l’occorrente, nemmanco stesse per partire in guerra, maglie di lana incluse, e lui arriverà poi chissà dove e lì realizzerà il sogno di scomporsi e anche sbracarsi e si concederà il lusso di sfuggire qualche telefonata, la voce protettiva, quelle domande “ma hai mangiato? e che hai mangiato? mi raccomando, figlio mio, mangia, eh?”.
Brava donna, una madre di famiglia, di quelle che le vedi e ti disarmano, ancora vergini, in un certo senso, ingenue delle cose della vita, ma se non le guardassi in faccia, se non notassi la stanchezza, la delega di quella cura che diventa arma di oppressione, se non vedessi lei nel suo complesso, la chiamerei da parte e le direi in un fiato: “ma tu… ti sei mai preoccupata di lasciar trombare in pace il tuo figliolo… o gli hai detto che se tromba, ‘un si sa mai, andrà all’inferno?”.