[In video un pezzo dalla colonna sonora di Berlin Calling]
Non serve dirlo. Lui si faceva. Era mio amico e lo vedevo perso. L’ho raccolto per strada una notte che tornavo a casa. Non so come si dice, che linguaggio usare, so solo che era piegato su se stesso, un corpo vuoto, accasciato sull’asfalto.
Frenai d’impulso. Non sapevo neppure si trattasse di una persona. Poteva essere un sacco o che ne so. Fari puntati in faccia, provai a sentire il suo respiro, aveva fiato e dissi che l’avrei portato in ospedale. Disse di no, temeva un Tso, un ricovero coatto.
Non me l’assumo questa responsabilità, mio caro, potresti morire tra un secondo e io non voglio che tu muoia. Sto bene, dice lui in un soffio e tira su una mano per farmi una carezza.
Ti porto a casa? Chiedo. No, fa lui, c’è la famiglia, madre, padre, e un sacco di altra gente. Meglio di no. Non capirebbero. E io, lo sfotto, io capisco? Sorride, ad occhi chiusi e il corpo si fa di nuovo debole.
Devo portarti in macchina, aiutami, non ce la faccio, se ti lascio in strada ti becca l’eroe in divisa e finisce come per Aldrovandi. E’ brutta ‘sta mania di punire chi è a disagio. Tira su un piede, ho da salvarti da quell’auto che ti mette sotto, e sei pesante, accidenti a te, chissà che hai preso, che merda t’hanno dato, ché figuriamoci se giudico, amico mio, la vita è una e breve ma è comunque tua e io non pratico redenzioni e l’unico problema, adesso, è che o t’attacchi alla mia spalla, senza smontarmela, possibilmente, o devo chiamare un carroattrezzi.
Ridi? Allora un po’ di vita t’è rimasta dentro. Chiama il mio nome, si, sono proprio io, quella rompipalle che ti mette in discussione tutto. Però la mia torta non l’hai mica rifiutata. Lo so che era buona. E dimmi, ti ricordi gli ingredienti? Lo sai perché li avevi svelati tutti. Uno per uno. Forza, sangu’, tieni presente che in città con il tuo muscolo pigro ci fai i gran soldi. Basta che segui le orme dello spavaldo che ci chiede sempre una moneta, ce l’hai in mente? Ma si, quello che t’ha fatto morire dalle risate l’altra sera.
Ma insomma, a tal proposito, ossignore, stasera ti sei perso. T’aspettavamo là e ti ritrovo a fare l’adesivo a questa pece nera, sporca, che t’ha macchiato il viso. Un piede avanti e poi un altro. Curù, non posso caricarti a spalla. Ridi, si. Ma me lo dici cosa ti è successo? Non è per farmi i cazzi tuoi, e lo sai bene che tutto sono meno che una missionaria santa, ma t’è partito l’ultimo neurone?
“No… m’hanno licenziato… io non sono niente…”. Occavolo, maddai. Perciò sei tornato a casa di tuo padre? Di’ solo si o no con la testa senza far fatica. Si? Vabbè. E la tipa con cui stai? Che tipa, mi fa lui, non c’è nessuna tipa. Andata pure quella? Bella storia.
Intanto abbiamo superato il primo ostacolo e sono riuscita a farti mettere col culo sul sedile. Cintura a posto. Dove ti porto? Ti porto a casa mia. Dove potrei portarti? Ti metto sul divano e bacinella a parte almeno poggi la testa su un cuscino.
Furono necessarie due ore per addormentarsi, vomito, rabbia, tra risate, pianto e sfoghi. Tornava a respirare, infine, e di respiro in respiro il sonno gli fu amico. Il giorno dopo è festa. Il giorno dopo è sempre meglio. Non c’è dubbio.