L’articolo viene da RedAcon e ci spiega in modo semplice quando lo stalking reale si trasforma in cyberstalking ovvero in stalking che viene praticato via web attraverso gli strumenti che usate per connettervi, entrare in rete, postare messaggi, comunicare tramire spazi, social network e via di seguito.
Angela Zannini, autrice dell’articolo, ci dice che “stalking” vuol dire “perseguitare”, ovvero “indica una serie di atteggiamenti tenuti da un individuo o individua che tormenta un’altra persona: perseguitandola può indurle persino stati, di ansia e paura, tali da comprometterne il normale svolgimento della propria vita quotidiana. Solitamente avviene mediante ripetuti e, spesso incessanti, tentativi di comunicazione verbale e scritta, appostamenti ed intrusioni nella vita privata (ecc).
Lo stalking può nascere dal complicarsi di una relazione interpersonale e chiunque può esserne vittima; si identifica in un modello comportamentale che opera intrusioni costanti nella vita pubblica e privata di una persona.”
L’articolo poi prosegue informando dell’esistenza di una legge che persegue quasiasi serie di reati persecutori reiterati, aggressioni psicologiche e molestie, condotti anche via e-mail, minacce, ecc, tali da “cagionare un perdurante stato di ansia e paura in chi li subisce“.
Lo stalking può essere ovviamente riprodotto anche tramite web e il nome che gli è stato dato è cyberstalking (o stalking digitale).
L’articolo ci racconta dunque cosa si intenderebbe per cyberstalking:
“Il termine è per lo più utilizzato per indicare l’uso di internet, della posta elettronica o di altri dispositivi di comunicazione elettronica per molestare una persona. Questa molestia, che spesso prende le caratteristiche di una persecuzione ossessiva, generalmente comprende comportamenti fastidiosi o minacciosi compiuti ripetutamente nei confronti della vittima, come ad esempio l’invio senza consenso della persona offesa di grandi quantità di e-mails, o anche solo il ripetuto invio di e-mails, non sollecitate, dai contenuti offensivi o sgradevoli per il soggetto passivo (spamming), l’intrusione nel sistema informatico della vittima tramite programmi volti ad assumerne il controllo o a danneggiarlo (virus), o addirittura l’impersonificazione della persona offesa su internet (in chat newsletter, social network) spesso in contesti diffamatori (come siti di genere erotico), la pubblicazione sulla rete di siti o informazioni dai contenuti minacciosi o offensivi riguardanti la vittima. Le conseguenze sono facilmente immaginabili: in breve tempo la reputazione, la libertà e la sfera personale del malcapitato saranno gravemente compromessi ed egli non potrà più serenamente svolgere le proprie normali interazioni per essere continuamente tormentato.
Tali comportamenti è evidente ingenerino nella vittima un evidente cambiamento delle proprie abitudini ed un grave e reale stato di paura e ansia, proprio perchè le molestie commesse con il mezzo del computer ed attraverso internet spesso sono ancora più gravi e lesive di quelle per così dire “tradizionali”.”
L’articolo continua ancora spiegandoci della pericolosità di internet e di altri trucchi e barbatrucchi che il cattivo o la cattiva può avere per fare male alla propria vittima. Un riferimento enorme viene fatto alla causalità dell’anonimato, esattamente come qualche Onorevole deputat@ quando ignora che l’anonimato in rete si può dire che non esista.
Chiunque tra noi abbia una connessione ha un ip e usa un dns. L’ip è un indirizzo virtuale e noi saremo soggetti alla legge del paese in cui ha sede il dns (puoi abitare in italia ma usare un dns piazzato ovunque) [leggi sotto un commento che integra e corregge in parte questo *dettaglio*].
La cancellazione dell’anonimato per come la propongono certi parlamentari equivale ad una evidenziazione del fenomeno di schedatura preventiva già esistente degli utenti.
Per fare un parallelismo con il mondo reale diciamo che è come se voi, oltre ad essere iscritti all’anagrafe, certificati per il luogo in cui vivete o meno, dovreste andare in giro per le strade, uguali alle vie del web, con un numero stampato sulla fronte, un segno, come la croce voluta dai nazisti per gli ebrei o i triangoli per rom e gay. Dovreste cioè stamparvi nome cognome e numero di matricola su un braccio, come foste carcerati per il mondo. Criminali senza aver commesso un crimine.
E’ tipico di chi ha una mentalità forcaiola e giustizialista – per non dire autoritaria e fascista – quella di far prevalere la richiesta di individuazione a colpo d’occhio dei cittadini e delle cittadine alla esigenza e al diritto legittimo di tutela della privacy.
In italia abbiamo un garante della privacy che ci spiega qualcosa in merito. L’equilibrio tra richieste poliziesche di violazione della sfera privata degli individui e diritto della privacy in italia è quasi nullo perchè spesso si usa una campagna terroristica – a proposito dei rischi sulla pedofilia o sul nemico oscuro in rete – per aggravare le leggi e ledere ulteriormente la privacy delle persone. Su queste si basano tanti provvedimenti repressivi atti a controllare il flusso di informazioni che gravitano in rete e su questo si basa anche la battaglia di chi esige “diritti digitali” e di chi vuole la libera circolazione dei saperi, delle idee, delle opinioni.
Tutt’ora però ci sono delle norme minime delle quali si può fruire. Cosicchè possiamo stabilire che le nostre conversazioni private, via mail o quant’altro, possono essere svelate solo in sede penale.
Ovvero: se una persona per realizzare stalking digitale su di voi rivela vostri dati anagrafici o informazioni che voi avete comunicato in via del tutto privata siamo già nel campo della violazione della privacy.
Come già osservato a proposito di atteggiamenti molesti quali stalking, bullismo, mobbing (virtuali), spesso esercitato anche da donne, la persecuzione può essere realizzata su più fronti.
Se qualcun@ scrive in privato in modalità ossessivo/compulsiva messaggi indesiderati ad una persona, insistenti, offensivi e minacciosi causando stress e ansia. Se qualcun@ reitera questa persecuzione in pubblico diffondendo offese e insulti diretti a quella persona. Se qualcun@ persevera nella diffusione di messaggi occupando ogni spazio possibile per fare conoscere il suo pensiero offensivo e molesto sulla persona che vuole danneggiare. Se si usa il web per diffondere pensieri “indiretti” rivolti alla persona oggetto della molestia ma veicolati presso luoghi frequentati da amicizie o conoscenze in modo da provocare un omicidio sociale. Se accade questo e altro o molto di più siamo già alla persecuzione molesta.
Se questa modalità persecutoria viene realizzata in branco, assieme ad una serie di conoscenze capeggiate da una persona in particolare (tipico del bullismo: esiste un@ leader e le altre o gli altri assieme ad una serie di testimoni passivi che diventano il terzo soggetto responsabile degli atti commessi) si può comunemente chiamare “squadrismo“.
Per esempio: progettare di occupare in gruppo attraverso commenti, insulti, e così via o un qualunque spazio web per orientare la persecuzione nei confronti di una persona qualunque, è squadrismo. Equivale al gesto di qualunque branco fascista che si da appuntamento, ordisce un piano e realizza una aggressione (virtuale) nei confronti di qualcun@. C’è premeditazione, c’è intenzionalità, c’è in progetto la distruzione di quella persona. La differenza sta nel fatto che invece che le spranghe portano con se’ una tastiera e la usano per distruggere in ogni modo possibile la vita della vittima predestinata.
Di tutte queste cose noi abbiamo sempre ragionato a proposito di stalking digitale e squadrismo maschilista e fascista. Ci siamo poste il problema di quale possa essere la soluzione non securitaria per affrontarlo.
La questione riguarda ovviamente anche le donne, spesso assai più aggressive, perchè bravissime nella pratica dell’aggressione non fisica, quella indiretta, esercitata nei secoli dei secoli per sfogare rabbia, frustrazione, invidia, rivalità, livore, ostilità, nei confronti di qualcun@ attraverso il pettegolezzo, esercitando un potere nei luoghi di frequentazione, un impedimento alle attività che l’oggetto della loro attenzione svolge, etc etc.
Ci siamo dette che la nostra pratica preferita è l’autodifesa e così abbiamo cominciato a ragionare di autodifesa digitale.
L’autodifesa digitale – antiautoritaria – presuppone una serie di conoscenze tecniche “difensive”, mai “aggressive” circa l’uso del web. Presuppone la realizzazione di sistemi di disinnesco della pratica molesta, di denuncia e disvelamento qualora fosse necessario ma certo non è escluso, qualora le minacce fossero insistenti e ponessero in serio pericolo le persone alle quali sono rivolte, l’uso delle leggi di cui disponiamo.
In questo caso si arriva a quella contraddizione tipica di una donna violata, stuprata, percossa: se non è in grado di difendersi da sola cosa fa?
Rispondere ad armi pari e in contrapposizione machista non sta nelle nostre corde. Difendersi legittimamente sicuramente si. Ma se la denuncia sociale, la complicità e la solidarietà di chi ci sta attorno, non ci sono utili per evitare conseguenze di vario genere: la esclusione fisica dai luoghi che frequentiamo, il dover cambiare abitudini, il dover rinunciare a camminare a testa alta per le strade reali e quelle virtuali perchè c’è sempre qualcun@ che può ferirti se tu non denunci e non agisci per difenderti, la perdita di spazio, agibilità fisica, talvolta politica, allora la denuncia diventa inevitabile.
Sarebbe il caso forse che i centri antiviolenza, si aggiornassero, si attrezzassero per provare a dare una risposta collettiva ai danni che può causare un qualunque comportamento molesto via web. Sarebbe il caso che i centri antiviolenza attivassero uno spazio di ascolto per donne che subiscono la violenza di altre donne.
Sarebbe il caso, si, di ricordarci che siamo nel 2009 e che le donne, purtroppo, essendo quelle che hanno il maggiore gap tecnologico rispetto agli uomini, non hanno chiaro che il web va usato con regole precise. Come dire che al pari di uomini che non hanno strumenti culturali per capire che le donne non possono essere maltrattate e che non si può avere libero accesso al loro corpo e alle loro vite se non richiesto, allo stesso modo certe donne (ma anche tanti uomini di cui abbiamo parlato) non hanno conoscenza del mezzo che usano e delle regole (netiquette) da seguire per non molestare – ovvero: stuprare virtualmente! – le persone.
Gli spazi web sono come case private. Un indirizzo mail, una mailing list regolata da una policy, uno spazio in un qualunque social network sono spazi privati. Chiunque violi quegli spazi realizza lo stesso comportamento che potrebbe realizzare chi decidesse di avere libero accesso alla casa di una singola persona ogni volta che lo desidera.
Sappiamo invece che non possiamo entrare nelle case della gente senza essere invitat* e che l’intrusione realizzata a scopo di molestia, per insultare, minacciare, denigrare, diffamare una persona equivale ad uno specifico danno sulla persona molestata.
Per esempio: avere l’indirizzo mail di una persona non significa poterlo usare per “spammare” decine di mail non richieste. La mail non è una cassetta postale ma è un luogo con sfumature maggiormente intrusive per la nostra vita.
L’autodifesa sta nel decidere di gettare quella posta tra quella non desiderata, nel bloccare il mittente, nel moderarlo, nell’individuare la persona da cui proviene a futura memoria, nell’immaginare altre soluzione autodifensive.
In ogni caso il problema va agito, mai in maniera passiva, mai supine, mai piegate alla cattiveria di chi vi vuole fare del male. Pensiamoci su. Pensiamoci sempre.
—>>>Leggi anche un contributo che integra e corregge e un approfondimento di HCE a proposito di IP e DNS:
A proposito di quanto scritto da noi:
“Chiunque tra noi abbia una connessione ha un ip e usa un dns. L’ip è un indirizzo virtuale e noi saremo soggetti alla legge del paese in cui ha sede il dns (puoi abitare in italia ma usare un dns piazzato ovunque). ”
HCE dice:
capire a quale legge sei soggetto per le azioni compiute in rete è in generale un problema abbastanza complesso, proprio per la natura internazionale e “trasparente” delle infrastrutture di rete. quindi conta dove sono memorizzati i dati, ma anche dove si trova il contesto
sociale che su cui intervieni. ad esempio, se diffami una persona su facebook (che ha i server negli USA) ma i messaggi vengono letti da una comunità persone italiane, puoi benissimo essere perseguito in italia, anche se può essere complicato o lungo ottenere i dati.
tecnicamente, dal punto di vista dell’anonimato in rete l’informazione chiave è l’indirizzo IP:
* in quasi tutti i casi è possibile risalire al titolare di un indirizzo IP in un dato momento, ma in teoria è necessario un intervento dell’autorità giudiziaria.
* quasi tutti i luoghi di espressione in rete (siti, blog, forum, mail…) registrano l’indirizzo IP da cui viene inserito qualsiasi contenuto in un “log file” per accedere al quale in teoria è necessario
un intervento dell’autorità giudiziaria.
fanno eccezione quelli esplicitamente attenti alla protezione della privacy, come noblogs o indymedia.
ad esempio, i provider normalmente assegnano un indirizzo IP quando ti connetti, e quando ti scolleghi lo riusano per qualcun’altro. quindi registrano a chi lo hanno assegnato e per quanto tempo lo tiene, e l’uso di questo IP in un dato momento può essere ricondotto al titolare
del contratto.
a seconda della configurazione questo IP può essere sul tuo PC o sul router che usi per condividere la connessione con i familiari o con i colleghi di lavoro. in quest’ultimo caso, il più delle volte non si può risalire a quale calcolatore ha inserito cose tra quelli che hanno accesso ad una rete locale. peggio ancora se lasci la rete wireless aperta al mondo: in quel caso potresti essere accusato per i reati compiuti da qualche vicino o passante che si collega abusivamente, ma le responsabilità per quello che fai tu diventano più sfumate.
il DNS che usi invece è abbastanza irrilevante per l’anonimato, ma può essere importante per la privacy, perché chi gestisce il server DNS (di solito ancora il provider) può tenere una registrazione dei siti che visiti, ma anche in questo caso dovrebbe rilasciarla solo su richiesta dell’autorità giudiziaria.