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L’orco

La prima cosa che ricordo di mio padre è uno schiaffo, il fragore di tanti oggetti rotti, la mutilazione dei miei bisogni, quelli di una adolescente. In ombra c’era quella donna, posa disposta al pianto, sospiri e sacrifici, impotenza e quella attitudine a saldare con le toppe ferite e falle di quella famiglia.

La seconda cosa che ricordo è quella sorta di deresponsabilizzazione, ché è lui il cattivo e dunque noi facciamo clan, tutti attorno a questa donna che rivive la propria adolescenza gestendo giochi con i figli, perché è più bello star dalla parte della ragione, senza assunzione di responsabilità.

Poi c’è la terza è vedo questa donna che tenta di sopravvivere scansando il suo conflitto, sveglia presto, ancora sacrifici, come era adeguato per una donna di quell’epoca, la supponenza del far tutto meglio, ché tanto lui porta solo confusione, e accentrare diventa ancora deresponsabilizzare e avere il potere di gestire, dietro le quinte, i moventi delle discussioni, le dinamiche di relazione, chi parla con chi e perché, io sono buona, ti copro io, non diciamolo a tuo padre, silenzio arriva lui, poi reagisce male, mamma bambina che ha fatto quel che poteva senza che nessuno l’aiutasse a crescere.

La quarta: c’è un uomo che io vedo solo, fuori dal cerchio costruito attorno a lei. Sono tutti buoni, lei, i figli, le figlie, meno che lui. Al punto che qualcuno della prole già chiedeva “perché non lo lasci mamma?” e lei, definitiva, “perché altrimenti voi restate in mezzo alla strada”. E c’era una questione di assenza di coraggio in quelle parole, perché se la famiglia vive male è già come fosse sotto i ponti. O è questione di non saper vedere dove va il futuro, il proprio, quello altrui, come fare, da che parte cominciare, povera donna con la licenza elementare presa in prossimità della seconda guerra, quando gli uomini partivano per morire e le donne restavano a svezzare i figli.

Ti viene in mente tardi, forse, che avresti potuto considerare e fare e dire e poi c’erano i parenti, ma chi lo sa come sarebbe andata se e se e se. Intanto vedo un uomo solo, che non si sente abbastanza amato, che cerca quella donna e la accarezza, lei si sottrae, perché di sesso è difficile parlare, figuriamoci farlo se non per un dovere, non le piaceva, non lo voleva, non so dirlo, non sta a me giudicare, ma c’era lui, distante, e quello che ricordo è che avevo voglia di abbracciarlo e dirgli tante cose.

Sai, papà, forse ho capito, che ne so io di quello che hai vissuto, di chi ti ha fatto o detto cosa, sei una persona come tante, non sei perfetto, non sei tante cose, ma sei rimasto qui, con me, con noi, mi hai parlato, hai contemplato da lontano quel quadro familiare, hai colmato la tua solitudine come potevi, con interessi e prove di contatto, parole, gesti, a volte urli, ma io non so come si fa quando c’è chi non vuol sentire. Forse gridare serve. Non è che ti perdono, no, non c’è proprio nulla da perdonare. E’ un po’ diverso e mi sorprende, davvero, dirti ciò che sto per dire.

Io lo ricordo, sai?, quando dicevi che lei ti nascondeva le cose, quando evitò di dirti che avevo avuto un incidente, perché tu non avresti saputo gestire, perché la tua schiena curva, la tua fragilità, non erano adeguati. Non eri d’aiuto. Serviva un corpo dritto, una voce ferma, lucidità e pazienza. Gestiva lei, gestivo io, gestivamo tutti fuorché te che dovevi essere protetto, come il figlio piccolo di una famiglia fatta da tanti genitori. E tu venivi derubato del diritto all’emozione, all’età adulta, alla verità.

Io non ti mentirò mai, giuro, ti dirò tutto, sinceramente, come sto facendo adesso, anche se ti fa male, anche se mi fa male, ma ti vedo, riconosco, accetto e credimi, oramai, per scelta, ché sai come sono fatti i branchi, o dentro o fuori, il clan mi ha fatta fuori per aver dato la mano a te.

La quinta: io ti capisco. Sono perfino solidale. Guardo con tenerezza quelle mani che mi hanno dato contro. Rido per le tue battute, godo dei tuoi occhi commossi e sorridenti, non ti sembra vero, io sono qui, ti ascolto, mi lascio toccare, mi abbracci, mi tornano alla mente le piccole e grandi cose che hai fatto per me, ti stimo, ti parlo con orgoglio, senza di te io non sarei niente. Osservo la piega della fronte corrucciata, vado oltre certe tue parole che non mi appartengono, e resto muta, cioè, ti voglio bene. Ti voglio tanto bene.

Questa è una storia di pura invenzione e anche no. Ma in ogni caso, ogni riferimento a cose, fatti e persone è puramente casuale.

Posted in Racconti 2012, Storie violente.

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