Il programma del governo sulla famiglia non è affatto nuovo. E’ stato già attuato in epoca fascista. Perciò vi propongo un capitolo tratto dal volume “Il Novecento” de “La Storia delle donne” di Georges Duby e Michelle Perrot. L’intera fantastica opera – composta da cinque volumi: L’Antichità, Il Medioevo, Dal Rinascimento all’età moderna, L’Ottocento e infine Il Novecento – è nel catalogo della Laterza Edizioni. Ho chiesto alla casa editrice se per motivi militanti, per informare sul passato che tante analogie, tenendo in debito conto le ovvie differenze, ha con il presente, potevo pubblicare interamente il capitolo: “Il Patriarcato fascista: come Mussolini governò le donne italiane (1922-1940)” di Victoria de Grazia tratto dall’ultimo volume. Mi hanno detto di si, che aderivano alla “Pregevole iniziativa” con l’unica raccomandazione di non modificare nulla.
Ringrazio quindi la Laterza e vi propongo il capitolo che può davvero essere utile per capire da dove veniamo ma anche in che pantano siamo rimasti impigliati.
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Di Victoria de Grazia [da “La Storia delle Donne” di Georges Duby e Michelle Perrot – volume: “Il Novecento” – Laterza Edizioni]
Per comprendere la condizione delle donne italiane durante la dittatura di Mussolini bisogna tener presenti due interrogativi fondamentali. Primo, cosa ci fu di specificamente fascista nell’oppressione delle donne in Italia tra le due guerre? Secondo, può lo studio della condizione delle donne rivelarci una prospettiva nuova sul tipo di regime instaurato dai fascisti? La risposta è, in sintesi, che la dittatura mussoliniana costituì un episodio particolare e distinto del dominio patriarcale. Il patriarcato fascista teneva per fermo che uomini e donne fossero per natura diversi. Esso politicizzò pertanto tale differenza a vantaggio dei maschi e la sviluppò in un sistema particolarmente repressivo, completo e nuovo, inteso a definire i diritti delle donne come cittadine e a controllarne la sessualità, il lavoro salariato e la partecipazione sociale. Alla fine, questo sistema si rivelò parte integrante delle strategie dittatoriali di rafforzamento quanto la regolamentazione corporativa del lavoro, le politiche economiche di tipo autarchico e il bellicismo. Le concezioni antifemministe furono parte del credo fascista al pari del suo violento antiliberalismo, razzismo e militarismo.
Dobbiamo quindi considerare il dominio fascista qualcosa di sostanzialmente differente da quello esercitato durante il “patriarcato liberale”, come è stato talvolta definito l’oppressivo sistema dei rapporti tra i sessi prevalente nelle società occidentali del XIX secolo. Si dovrebbe parimenti distinguerlo dal “patriarcato sociale”, termine coniato recentemente per sottolineare lo status di “cittadini di seconda classe” rivestito dopo la II guerra mondiale dalle donne negli Stati assistenziali capitalistici, il prototipo dei quali era stato la socialdemocrazia svedese degli anni ’30. Allo stesso modo la prassi fascista nei confronti delle donne presenta sufficienti analogie con quella nazista da giustificare il fatto di essere vista in una prospettiva comune. La politica sessuale fascista costituisce di solito materia per quello che potremmo definire approccio “interno”, capace cioè di considerarla separatamente dai processi a più lungo termine dello sviluppo nazionale. Esso rischia però di attribuire al regime mussoliniano trasformazioni come i progressi dell’istruzione femminile negli anni ’30, la diminuizione del tasso di mortalità infantile e persino spinte molteplici della cultura di massa senza peraltro spiegare quel modello di incuria e protezionismo, di premuroso maternalismo e boria maschilista, di modernità e illibertà che fu tipico del dominio fascista. Queste caratteristiche apparentemente contraddittorie della dittatura mussoliniana, al pari delle contrastanti reazioni che suscitarono nelle donne, si spiegano meglio considerando il fascismo come un nuovo sistema di sfruttamento a base sessuale, rispondente a strategie di consolidamento del potere nazionale.
La ridefinizione della politica sessuale (II° paragrafo – Il patriarcato fascista – da La storia delle donne – Laterza Edizioni)
La politica sessuale fascista fu sotto molti aspetti la peculiare risposta italiana al collasso verificatosi durante la Grande Guerra di ciò che lo studioso inglese di politica economica John Maynard Keynes definì nel 1919 come il modello vittoriano di accumulazione capitalistica. Fondato sulla massima riduzione dei consumi e sull’esercizio ristretto dei diritti civili, e rafforzato da una ideologia della scarsità, il liberismo europeo precedente alla I° Guerra Mondiale si era sviluppato esigendo dai cittadini una rigorosa disciplina sociale e costumi puritani. Il grande movimento d’emancipazione delle donne europee, già evidente nei movimenti suffragisti prebellici, ma che aveva le sue origini più profonde nella rivoluzione demografica e nella diffusione delle idee liberali alla seconda metà del secolo, divenne irreversibile quando milioni di donne furono mobilitate dall’economia di guerra. In seguito la presenza femminile crebbe nei lavori impiegatizi, e si verificò fra gli abitanti delle città una maggiore libertà dei costumi sessuali e sociali legata alla cultura di massa.
Nello stesso momento in cui combattevano queste spinte emancipative, i governi si trovarono a fronteggiare complesse questioni che i politici rubricavano come “problema della popolazione”. Esse andavano dal calo della fertilità, e da quelle che gli operatori sociali definivano “famiglie difficili”, alla concorrenza sul lavoro tra uomini e donne e all’impossibilità di prevedere il comportamento dei consumatori. In pratica tutti questi problemi erano connessi alla molteplicità di ruoli che le donne svolgevano nella società contemporanea in qualità di madri, mogli, cittadine, lavoratrici, consumatrici e utenti dei servizi sociali erogati dalla Stato. Le soluzioni proposte misero inevitabilmente i politici di fronte alla complessa questione riassunta nell’incisiva frase della sociologa e riformatrice sociale svedese Alva Myrdal: “Un sesso [costituisce] un problema sociale”.
Nei decenni tra le due guerre un duplice impegno si prospettò pertanto ai governi occidentali: la democratizzazione da una parte e la “questione demografica” dall’altra. Essi reagirono dapprima concedendo il suffragio femminile, e in seguito promuovendo nuovi discorsi pubblici sulle donne, legiferando in merito al posto di queste ultime nel mercato del lavoro e ricodificando la politica della famiglia. In questo modo, la ristrutturazione dei rapporti tra i sessi andò di pari passo con ciò che Charles Maier definì come una “ricostituzione” delle istituzioni economiche e politiche allo scopo di garantire gli interessi conservatori contro l’incertezza economica e la democratizzazione della vita pubblica. La misura in cui tale ristrutturazione riuscì ad assumere un aspetto autoritario o democratico, a reprimere o a cooptare i lavoratori, a permettere alle donne di progredire ovvero ad essere apertamente antifemminista, variò secondo il carattere delle coalizioni di classe al potere e le loro prese di posizione sulle ampie questioni dell’assistenza sociale e della redistribuzione economica. Il suo esito finale determinò aspetti significativi del rapporto delle donne nei confronti del capitalismo interventista statale manifestatosi negli anni ’30.
Nell’Italia fascista – e in seguito, forse, anche nella Germania nazista – il regime affrontò il duplice problema dell’emancipazione femminile e della politica demografica in chiave di salvezza nazionale, sfruttando vecchie tradizioni dottrinali del pensiero mercantilistico. Esse avevano acquistato nuovo credito dal settimo decennio dell’800 in poi perché le èlite europee, reagendo all’accresciuta concorrenza internazionale e all’aumento dei conflitti di classe, cercarono di proteggere i mercati interni dalle merci straniere e di potenziare la capacità di esportazione. Al pari dei loro precursori ottocenteschi che avevano teorizzato la necessità di una “moltitudine di poveri laboriosi”, i neomercantilisti si preoccupavano di ottimizzare il totale della popolazione per fornire manodopera a basso prezzo, soddisfare le esigenze militari e mantenere alta la domanda interna. Alla svolta del XX secolo a questi obiettivi si aggiunsero preoccupazioni ulteriori circa il declino del tasso di fertilità, le minoranze etniche che con le loro caratteristiche razziali e le lotte nazionalistiche si presumeva indebolissero l’identità dello Stato nazionale, e le differenze di fertilità all’interno, le quali minacciavano di moltiplicare i cosiddetti meno idonei mentre le èlite si riducevano costantemente di numero. Alla vigilia della Grande Guerra attorno alla questione demografica si andava affermando una nuova politica biologica, permeata da una concezione della vita come lotta mortale per l’esistenza propria del darwinismo sociale, la quale si proponeva di elaborare programmi eugenetici e relativi al benessere sociale secondo i fini della politica statale. Questi erano fondamentalmente due: sostenere un potere declinante sul piano internazionale e assicurare il controllo sulle popolazioni interne. Nella misura in cui la diversità etnica e l’emancipazione della donna furono identificate come ostacoli, la politica biologica venne agevolmente permeata dall’antifemminismo e dall’antisemitismo.
Le reazioni del fascismo italiano, che potrebbero essere definite integralmente autoritarie e antifemministe, si chiariscono meglio contrapponendo loro ciò che gli osservatori contemporanei consideravano l’esatto opposto, vale a dire la politica demografica svedese. Quest’ultima venne formulata dopo che i socialdemocratici, vinte le elezioni del 1932 e istituita nel 1935 la Reale commissione per la questione demografica svedese, furono in grado nel 1936 di consolidare la propria maggioranza in entrambi i rami del Parlamento, aprendo la strada l’anno successivo alla cosiddetta “sessione delle madri e dei bambini”. A socialdemocrazia svedese era cosciente almeno quanto l’élite fascista dell’importanza rivestita dalla popolazione nel mantenimento della potenza statale, dal momento che nel 1933 la stessa Svezia possedeva appena 6,2 milioni di abitanti. Per superare la “crisi” provocata dal calo del tasso di fertilità, lo Stato svedese era disposto ad annullare le differenze tra potere pubblico e privato, tra autorità della famiglia e del governo e tra interessi individuali e statali, che avevano guidato la concezione liberale della politica e delle relazioni tra i sessi nel XIX secolo.
Oltre a queste, poche erano le somiglianze. I socialdemocratici svedesi, sostenuti da un’ampia coalizione liberale che comprendeva tanto gli agricoltori e le femministe quanto la classe operaia, unirono all’obbiettivo della sanità pubblica un basto programma di riforme economiche e sociali. La politica demografica svedese, come venne definita dai suoi principali artefici Gunnar e Alva Myrdal, aveva come scopo fondamentale una popolazione sana e stabile. Ciò comportava la ricerca di mezzi non coercitivi “per far astenere un popolo dal non riprodurre se stesso”, e presupponeva una “forma mite di nazionalismo” coerentemente con l’apertura svedese nei confronti dell’economia internazionale. Le riforme erano comunque il principale strumento per convincere gli svedesi del fatto che i loro interessi privati sarebbero stati salvaguardati anche perseguendo l’interesse pubblico. Con lo stesso spirito di equità redistributiva che ispirava gli aumenti salariali e la tutela delle aziende agricole, il governo socializzò alcuni importanti settori del consumo allo scopo di rendere uniformi gli oneri derivanti dall’allevamento dei figli. I provvedimenti principali riguardarono i servizi in natura, dagli alloggi a basso prezzo alle mense scolastiche gratuite. Lo Stato affermò anche il proprio interesse a sostituire le strutture familiari patriarcali con strumenti più razionali, efficienti e giusti per aiutare le donne a bilanciare gli oneri gravosi e talvolta incompatibili connessi alla loro condizione di mogli, madri, lavoratrici e cittadine. In tal modo, la politica sociale comportava il fatto che le donne sopportassero ancora il peso maggiore in relazione alla gravidanza e alla crescita dei figli. La questione era di rendere meno arbitraria la scelta di averli e meno oneroso il doverli allevare. Di conseguenza, oltre ad avere bambini esse furono incoraggiate a lavorare, l’aborto venne legalizzato, mentre il controllo delle nascite e l’educazione sessuale furono ampiamente favoriti perché non vi fossero parti “indesiderati” o “indesiderabili”.
Per contrasto, l’Italia pose il problema demografico in termini neomercantilistici, e la dittatura giustificò le proprie “battaglie” demografiche in chiave di salvezza nazionale. Tale concezione rivestì nei confronti delle donne conseguenze immediate. Lo Stato si proclamava l’unico arbitro della salute pubblica e in linea di principio esse non avevano alcun potere di decisione riguardo alla procreazione dei figli. Si riteneva anzi che le cittadine di sesso femminile fossero antagoniste dello Stato: prendessero personalmente o meno la decisione di limitare le dimensioni della famiglia, la responsabilità di avere in tal modo interferito con gli interessi di quest’ultimo veniva attribuita soltanto a loro. In realtà la politica economica intesa a comprimere i consumi per ridurre le importazioni e favorire le esportazioni, oltre ad aggravare le diseguaglianze sociali, può aver accresciuto gli ostacoli economici alla procreazione e aumentato le differenze di fertilità tra aree urbane e rurali. Impedendo le riforme nel tentativo di ridurre tali fattori frenanti, il fascismo cercò di imporre le gravidanze proibendo l’aborto, la vendita di contraccettivi e l’educazione sessuale. Allo stesso tempo favorì gli uomini a spese delle donne all’interno della struttura familiare, del mercato del lavoro, del sistema politico e della società in generale. Ciò avvenne tramite l’esteso apparato di controllo politico e sociale escogitato in primo luogo per riversare il peso della crescita economica sui membri meno avvantaggiati della società.
L’eredità del patriarcato liberale (III° paragrafo – Il patriarcato fascista – da La storia delle donne – Laterza Edizioni)
Mentre le posizioni progressiste della socialdemocrazia svedese erano legate a vigorose tradizioni del femminismo liberale, a un settore agricolo bene integrato nonché a una cultura civile e a costumi sessuali relativamente omogenei, il patriarcato fascista affondava le sue radici nel fragile liberismo dell’Italia dopo l’unificazione e nell’instabile opinione pubblica di una società che si industrializzava in ritardo e in modo non uniforme. Sviluppatosi intorno alla svolta del secolo, il movimento delle donne italiano rimase piccolo e diviso, mentre i suoi membri si tenevano lontani dalla “piazza” dedicandosi alle opere pie in favore di donne e bambini indigenti. La questione femminile, tuttavia, si profilava grave. In parte ciò era dovuto al fatto che le élite liberali si erano mosse in modo estremamente discontinuo riguardo alla stessa integrazione degli uomini successiva alla raffazzonata unificazione del paese. Alla svolta del secolo le spaccature regionali, civico-culturali e di classe erano, semmai, più grandi di mezzo secolo prima, aggravate non solo dal lento sviluppo del sud ma anche dall’evidente disuguaglianza dell’imposizione fiscale, dallo stentato sistema d’istruzione pubblica e dal rinvio fino al 1912 di una significativa riforma elettorale.
La “questione femminile” si complicò ulteriormente sovrapponendosi alla “questione sociale”: il socialismo italiano, combattivo e dotato di una base estesa, raccoglieva un vasto seguito tra le operaie, come pure tra i riformatori frustrati del ceto medio. Oltre a ciò, fino al 1904 la Chiesa cattolica si mantenne irriducibilmente ostile al sistema liberale. La sua cultura antimodernistica, che in genere mal tollerava le filosofie individualistiche, era contraria all’emancipazione femminile. La Chiesa si mostrò tuttavia paternalisticamente protettiva nei confronti delle donne e si propose come il principale campione dei valori della famiglia. Più specificamente, l’atteggiamento dello Stato liberale verso le donne presentò alcune contraddizioni che il regime fascista avrebbe poi sfruttato. Il governo liberale consisteva in un laissez-faire spinto all’estremo, caratteristica che i propagandisti mussoliniani avrebbero denunciato per legittimare la pretesa fascista di essere una forza riformatrice. La legge Pisanelli del 1865 aveva costituito un passo indietro rispetto alla legislazione familiare vigente nell’Italia austriaca. Come altre codificazioni del diritto di famiglia di ispirazione napoleonica, essa affermava l’interesse dello Stato nei confronti del nucleo familiare rafforzando l’autorità dei capifamiglia maschi.
Le donne erano escluse dalla maggior parte degli atti giuridici e commerciali in assenza del consenso dei propri mariti, dalla possibilità di agire come tutori nei confronti dei figli, e persino dai “consigli familiari” che fino al 1942 ebbero il potere di disporre del patrimonio di famiglia, dell’eredità e delle assegnazioni dotali in caso di morte e incapacità del padre. Nel 1900 i governi di altri paesi stavano diventando più paternalistici, approvando riforme intese a proteggere le donne e i fanciulli non foss’altro che per salvaguardare i salari maschili e la purezza razziale. Il 30 per cento della forza lavoro industriale italiana era costituito all’epoca da donne. E tuttavia nessuna legge sul lavoro industriale fece parola del lavoro femminile fino all’approvazione nel 1902 della legge Carcano, la quale stabiliva per le donne e i minori una giornata lavorativa massima di dodici ore e vietava alle madri di tornare al lavoro prima che fosse trascorso un mese dal parto. Com’era prevedibile, la legge era piena di eccezioni ed era difficile controllarne l’applicazione. Anche le leggi familiari rivelavano la politica di non intervento propria del liberalismo italiano. Per mantenere intatto il patrimonio familiare, lo Stato diseredava i figli nati da unioni adulterine o incestuose, rendeva l’adulterio un crimine soltanto femminile e proibiva ogni forma di azione legale in questioni di paternità. Cosa non meno importante, l’Italia liberale riconosceva solo i matrimoni civili, sebbene ogni anno se ne celebrassero migliaia con rito religioso o comunque senza approvazione ufficiale, e i figli che ne derivavano risultassero illegittimi agli occhi del governo.
Alla luce di questo retaggio di noncuranza, il nascente movimento femminista italiano – e forse le donne in generale – sviluppò un rapporto ambivalente, quando non antagonistico, con le istituzioni e l’ideologia liberali. Alcuni gruppi, i più antichi, sotto l’influenza dell’egualitarismo radicale della democratica progressista Anna Maria Mozzoni simpatizzarono con il movimento socialista in rapida espansione, stringendo legami con donne della classe operaia; l’emancipazione femminile era per loro inconcepibile senza una completa democratizzazione politica ed economica. Altri gruppi, che divennero più coesi dopo il 1908, erano legati alla Chiesa cattolica e oltre al diritto delle donne a organizzarsi come presenza pubblica difendevano la famiglia e altri valori conservatori. Dopo il 1900, un numero crescente di donne del ceto medio era impegnato nel cosiddetto “femminismo pratico”. Il loro principale punto di riferimento organizzativo era costituito dal Consiglio nazionale delle donne italiane, fondato nel 1903. a differenza delle femministe angloamericane, e quali ponevano l’accento sulla parità dei diritti, le femministe borghesi italiane avevano poca fiducia che dalle forze del mercato o dal diritto di voto potesse nascere l’emancipazione. Abnegando se stesse con il fervore patriottico e il familismo tipico delle classi medie italiane, esse consideravano questo loro sacrificarsi in sforzi filantropici come una premessa alla concessione dei diritti civili. Prudenti in fatto di politica di massa, esse cercavano di ottenere il riconoscimento sociale e dello Stato della speciale missione materna che le donne svolgevano all’interno della moderna società. Molte, inevitabilmente, si dimostrarono sensibili alle altisonanti pretese mussoliniane che ciò fosse appunto avvenuto nell’epoca fascista.
Il fatto che il movimento appena descritto – mai numeroso, poco unito e raramente combattivo – riuscisse a stimolare un diffuso antagonismo sarebbe inspiegabile senza alcune osservazioni riguardanti la debole cultura civica dell’Italia liberale. Il comportamento delle donne emancipate non passava inosservato in questa società per metà industriale e per metà contadina, in cui esistevano bensì moderni centri industriali come Milano o Torino ma più del 50% della popolazione viveva ancora di attività agricole. Le élite liberali favorirono gli atteggiamenti antifemministi, non da ultimo negando alle donne il diritto di voto. Mostrarono inoltre scarso apprezzamento circa il servizio sociale reso dalle donne che, guidate dalla fede nella necessità della propria “sensibilità materna” per “temperare e completare l’assetto politico”, cercavano di curare i mali sociali e di calmare l’inquietudine della classe operaia attraverso iniziative filantropiche. Trascurando di agire esse stesse in questo campo, le élite liberali persero l’occasione non solo di riconoscere la validità dell’opera volontaria prestata dalle donne, ma anche di assoggettare il mutualismo operaio e la beneficenza cattolica all’autorità del governo centrale. Era un’occasione che i fascisti non mancarono invece di cogliere. In nome della “ricostruzione nazionale” essi criticarono aspramente il “disinteresse” liberale, imposero la “disciplina” alle associazioni locali, e mobilitarono come volontarie nelle associazioni fasciste decine di migliaia di donne del ceto medio.
Il fascismo fu in grado di sfruttare anche l’esasperato maschilismo degli italiani. Si potrebbe dedicare un intero studio alle origini sociopsicologiche dell’atteggiamento maschilista assunto dagli intellettuali italiani dopo la svolta del secolo e alle sue innumerevoli manifestazioni, dalla sensibilità erotica dello scrittore decadente Gabriele D’Annunzio e dalle metafore antifemministe dell’influente rivista letteraria fiorentina “La Vice” fino alle famigerate dichiarazioni del poeta futurista Marinetti sul “disprezzo per la donna”. In Italia, la semplice discriminazione sessuale di tipo “latino” era a quanto pare aggravata sia dalla frustrazione derivante dal senso di venire esclusi dalla ristretta “gerontocrazia” liberale, sia dal disagio provocato dal modesto prestigio internazionale in un’epoca in cui insieme ai risultati delle imprese imperialistiche era in gioco l’onore maschile. La paura dell’esaurimento demografico aggiungeva un ulteriore componente, sebbene il tasso di fertilità italiano del 30 per mille fosse il più alto d’Europa dopo la Spagna e la Romania. Le inquietudini circa il disordine sessuale e il declino della razza erano evidentemente aggravate da altri fattori che comprendevano il salasso di popolazione maschile provocato dall’emigrazione (alla vigilia della Grande Guerra partivano ogni anno 500.000 persone), l’importanza attribuita al semplice numero delle braccia da lavoro in un contesto economico scarsi di capitali, la sorprendente varietà di comportamenti sessuali in una società che si sviluppava in modo tanto disuguale e, infine, la penetrante influenza esercitata in materia di fertilità dalle teorie scientifiche positivistiche e dalla dottrina cattolica.
Alla vigilia della guerra si profilava in Italia ciò che potremmo definire una politica “neopaternalistica”. Dal 191 circa, moralisti fanatici lanciarono campagne contro la degenerazione della vita familiare, unendo le loro forze a quelle delle associazioni cattoliche nell’attribuire la colpa del calo di natalità all’urbanizzazione, all’emancipazione femminile e alle pratiche neomalthusiane di ispirazione radicale. Le élite liberali, ancorché sempre riluttanti a intervenire nella politica sociale, tendevano ormai ad aderire a quello che il preveggente sociologo liberale Vilfredo Pareto denunciava come il mito “virtuista” dei riformatori morali: cioè abbandonavano il laissez-faire e i principi anticlericali per legiferare in materia di costumi sessuali. Con il “Manifesto futurista” di Martinetti del 1909 si allineò anche la cultura modernizzante: “Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie, e combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica o utilitaria”.
Questo atteggiamento neopaternalistico, tuttavia, non si tradusse affatto in un nuovo regime per governare le donne. Né tracciò una chiara posizione sul problema demografico che, dalla metà degli anni ’20 in poi, avrebbe fornito il quadro intellettuale e politico entro il quale formulare e realizzare un programma antifemminista. Qui è importante sottolineare piuttosto il fatto che il regime fascista, impadronendosi del potere, ereditò intorno alla “questione femminile” tutto un insieme di opinioni e consuetudini. Alcune, come quelle della Chiesa, l’avrebbero sostenuto pur entrando con esso in concorrenza. Altre, ad esempio in materia di dottrina razziale, vennero liberamente sfruttate da un fascismo alla ricerca di proprie strategie di governo. Il regime poté soprattutto denigrare “l’agnosticismo” liberale nei riguardi della famiglia, dei figli e della maternità, per avanzare la pretesa di essere una forza pionieristica. Cosa non meno importante, il duce sfruttò l’ardore patriottico, lo spirito di sacrificio e il mai esaudito desiderio di riconoscimento sociale da parte di molte donne del ceto medio, tra cui numerose ex femministe.
Le origini e le caratteristiche della politica sessuale fascista (IV° paragrafo – Il patriarcato fascista – da La storia delle donne – Laterza Edizioni)
Affermare che per il controllo delle donne Mussolini abbia sviluppato un sistema caratteristico non vuol dire che non esistesse in questo senso un piano già pronto quando marciò su Roma nel 1922. il fascismo italiano fu un movimento camaleontico che cambiava colore secondo i potenziali alleati e il mutevole terreno politico del primo dopoguerra. Nel 1919 questo movimento appena nato aveva abbracciato le posizioni degli intellettuali futuristi, pronti a sbeffeggiare la morale convenzionale sostenendo il divorzio e la soppressione della famiglia borghese. Nello stesso anno la voce del suo populismo opportunistico parlò in favore del suffragio femminile, ma tali posizioni vennero presto abbandonate di fronte al movimento dei reduci e all’avversione mostrata al suo interno nei confronti del lavoro femminile dai gruppi sindacali, nonché al rigido anti-femminismo cattolico-rurale degli agrari che nel 1920-21 appoggiarono gli assalti squadristici compiuti dalle camicie nere contro le leghe e le cooperative socialiste. Dopo il 1923 la misoginia fascista venne rafforzata dal duro autoritarismo degli alleati di Mussolini provenienti dal partito nazionalista. Costoro sostenevano il criterio de “l’interesse dello Stato” cui si sarebbe dovuto subordinare ogni “particolarismo”, e la loro concezione dello Stato forte e competente riuniva antropologi criminali, studiosi di igiene sociale, medici, fautori della protezione dell’infanzia e altri riformatori che, a lungo frustrati dall’inazione liberale, speravano di infondere vita ai loro progetti di miglioramento della “stirpe” italiana. Dopo il Concordato con il Vaticano del 1929, istituzioni, personale e tradizioni della Chiesa cattolica si dedicarono al rafforzamento dell’antifemminismo fascista.
Il fatto che la dittatura mussoliniana potesse elaborare una politica vera e propria verso le donne in una società sviluppata in modo così uniforme fu certamente dovuto a questo eclettismo dottrinale. Lo stesso Mussolini si appropriò di un luogo comune quando raccomandò ai suoi seguaci di non “discutere se la donna sia superiore o inferiore; constatiamo che è diversa” – e il ragionamento poteva giustificare qualsiasi posizione, nel nostro caso citato, tanto la concessione del voto alle donne quanto il contrario. Le opinioni fasciste sulle donne coprivano in tal modo tutta la gamma delle variazioni, dalla misoginia di origine rurale di Mussolini (le donne sono angeli o demoni, nate per “badare alla casa, mettere al mondo dei figli e portare le corna”) alla raffinata teoria delle essenze complementari del filosofo neohegeliano Gentile (impastoiate in dettagli insignificanti le donne, “natura infinita”, “principio primordiale”, sono incapaci di trascendenza). Una grossolana polemica positivistica denunciava l’inferiorità biologica delle donne, mentre alcuni pragmatisti, come Giuseppe Bottai, il principale tecnocrate del fascismo, ne difendevano cautamente l’uguaglianza motivandola con il fatto che i membri della nuova élite fascista avrebbero avuto bisogno di compagne e madri valide per allevare i loro figli. Un immenso divario separava ad esempio il cattolico fanatico Amadeo Balzari, che nel 1927 lanciò una campagna nazionale per “moralizzare” l’indecente abbigliamento femminile, dall’ex futurista Umberto Notari, il celebre giornalista e redattore attivo a Milano i cui eccitanti racconti – ad esempio “La donna tipo tre” (1928), cioè né “cortigiana” né “madre-moglie” – parodiavano e contemporaneamente pubblicizzavano la “nuova donna” italiana. Allo stesso modo, le sedicenti “ femministe latine” come la brillante Teresa Labriola, che faceva i salti mortali per conciliare fascismo e femminismo, erano assai lontane dai compiaciuti funzionari le cui battute antifemministe circolavano nei salotti romani. Ciò che costoro condividevano era tuttavia il fatto di credere che lo Stato avrebbe dovuto dispiegare il suo potere per affrontare risolutamente le questioni di ordine privato ed etico al pari di quelle politiche ed economiche. A vantaggio della politica di ricostruzione nazionale essi trascuravano le propri differenze di valutazione in merito alla diversità femminile, e le implicazioni che queste avevano in campo politico.
Alla fine, tuttavia, furono le stesse azioni compiute dal regime fascista per consolidarsi al potere a determinare nella società italiana tra le due guerre lo schema globale di comportamento nei confronti delle donne. Sul piano politico il fascismo si trasformò da movimento “eversivo” in governo monopartitico alla metà degli anni ’20, e da regime autoritario scarsamente radicato nella società civile in Stato di massa nel decennio successivo; in politica economica passò dal laissez-faire alle politiche protezionistiche nella seconda metà degli anni ’20 e, sulla scia della depressione e della guerra d’Etiopia, nel 1936 aspirò a una compiuta autarchia. Tale evoluzione fu preceduta e accompagnata dalla conferma delle alleanze sociali strette dalla dittatura con le forze conservatrici, vale a dire il grande capitale e i grandi proprietari terrieri, la monarchia, i militari e la Chiesa cattolica. In cambio, il regime sottomise il partito fascista alla burocrazia di Stato e usò quindi il PNF come cinghia di trasmissione per raggiungere quei gruppi sociali – gli operai, i contadini, i piccoli proprietari – i cui interessi erano stati ignorati – quando non furono sistematicamente violati – sul piano economico, integrandoli in un ampio ancorché superficiale consenso politico.
Per rassicurare questa alleanza conservatrice la dittatura esercitò una pressione incessante sui salari e i consumi, e mentre lo sviluppo proseguiva negli anni ’30 si accentuava il carattere dualistico dell’Italia. Ad un estremo c’erano un’agricoltura inefficiente e larghi strati di piccole imprese, le cui precarie condizioni venivano travisate dai peana ufficiali in onore delle ideologie antiurbane; all’altro estremo si trovava un settore industriale estremamente concentrato, salvato economicamente dall’aiuto statale e stimolato dal riarmo dopo il 1933. Alla metà degli anni ’30, si spendeva per le forze armate circa il 10 per cento del reddito nazionale e perfino un terzo delle entrate del governo. Contemporaneamente, la quota di reddito nazionale spettante ai lavoratori continuava a restringersi. Un indicatore dell’economia fascista dei “bassi salari” è costituito dal fatto che nel 1938 il reddito reale degli operai industriali era più basso del 3 per cento rispetto al livello del 1929, e del 26 per cento rispetto al massimo postbellico del 1921. nel 1938 una famiglia media spendeva in alimenti più della metà del proprio reddito, a paragone del 25 per cento negli Stati Uniti. Tutto considerato, tra l’inizio degli anni ’20 e lo scoppio della II guerra mondiale l’Italia fu l’unico paese industrializzato in cui i salari si mantennero tendenti verso il basso. Il tenore di vita misurato in base ai bilanci alimentari, all’acquisto di beni durevoli e alla disponibilità di pubblici servizi, la collocava assai indietro rispetto ad altre nazioni industrializzate.
Questa politica ebbe inevitabilmente ripercussioni di vasta portata sulla condizione delle donne italiane, specialmente sulla maggioranza operaia e contadina. Per realizzare la sua politica demografica, il fascismo tentò di imporre un maggiore controllo sul corpo femminile, e in particolar modo sulle funzioni riproduttive. Cerò allo stesso tempo di preservare le vecchie concezioni patriarcali della famiglia e dell’autorità paterna. Per sostenere la compressione dei salari e dei consumi, esso sfruttò le risorse economiche familiari deliberatamente e in misura fuori dal comune per un paese che si trovava già avanti sulla strada dell’industrializzazione. Pretese perciò che le donne agissero da consumatrici avvedute, da amministratrici domestiche efficienti e da astute fruitici del sistema di assistenza sociale – se volevano strappare a quest’ultimo i servizi di cui era particolarmente avaro – e inoltre che lavorassero spesso nell’economia nera per arrotondare le entrate familiari. Allo scopo di limitare l’impiego di manodopera femminile sottopagata in presenza di un’elevata disoccupazione maschile, e mantenere tuttavia una riserva di lavoratori a basso prezzo per l’industria, il regime escogitò un elaborato sistema di tutele e divieti teso a regolare il lavoro delle donne. Infine, per rendere queste ultime disponibili alle pretese sempre più complesse rivolte nei loro confronti e approfittando contemporaneamente del loro desiderio di identificarsi con la comunità nazionale e di servirla, il regime giocò la carta della modernità pur sempre denunciando i suoi risvolti femministi. Entro la metà degli anni ’30 esso aveva sviluppato organizzazioni di massa che rispondevano al desiderio di impegno sociale da parte delle donne – soprattutto le giovani e le borghesi – ma scoraggiavano la solidarietà femminile, i valori individualistici e il senso di autonomia promossi dai gruppi emancipazionisti dell’era liberale.
La politica riproduttiva (V° paragrafo – Il patriarcato fascista – da La storia delle donne – Laterza Edizioni)
L’attacco condotto dal regime contro la libertà di riproduzione costituisce l’aspetto forse più conosciuto della politica sessuale fascista. Nel suo famigerato discorso dell’Ascensione pronunciato il 26 maggio 1927, Mussolini pose gli interventi in “difesa della razza” al centro degli obbiettivi nazionali; lo scopo che il duce intendeva raggiungere entro la metà del secolo era una popolazione di 60 milioni in una nazione che ne contava all’epoca 40. Per giustificare questa ambizione egli faceva riferimento a due argomenti, e noi possiamo arguirne un terzo almeno altrettanto importante: ristabilire – “normalizzare” – le differenze tra uomo e donna che erano state sconvolte dalla guerra.
Il primo argomento era di tipo mercantilistico, ponendo l’accento sulla necessità di avere a disposizione semplici masse di persona come manodopera a basso prezzo. L’altro era invece più tipico di una nazione impegnata a espandersi imperialisticamente: il calo registrato nella crescita della popolazione, acceleratosi negli anni ’20 e reso sempre più evidente dalle migliorate tecniche di indagine demografica, frustrava le ambizioni espansionistiche dei suoi capi. Se l’Italia non fosse divenuta un impero, amava ripetere il duce, sarebbe certamente diventata una colonia.
Nella sua ricerca di “nascite, ancora nascite”, la dittatura oscillava tra riforme e repressione, tra l’incoraggiamento dell’iniziativa individuale e l’offerta di concreti incentivi statali. L’OMNI, ossia l’Opera Nazionale Maternità ed Infanzia, rappresenta meglio di qualsiasi altra iniziativa questo lato riformista: istituito il 10 dicembre 1925 con l’entusiastico sostegno dei cattolici, dei nazionalisti e dei liberali, esso si occupava principalmente delle donne e due fanciulli che non rientravano nelle normali strutture familiari.
Altre riforme riguardarono le esenzioni fiscali concesse ai padri con famiglie numerose a carico, i congedi e le previdenze statali in caso di maternità, i prestiti concessi in occasione di nascite o matrimoni, nonché gli assegni familiari erogati ai lavoratori stipendiati e salariati. E misure repressive compresero invece il fatto di trattare l’aborto come un crimine contro lo Stato, la messa al bando del controllo delle nascite, la censura sull’educazione sessuale e una speciale imposta sui celibi. Si potrebbero includere inoltre gli avanzamenti di carriera previsti per i padri con famiglie numerose a carico, una misura che, considerati gli alti tassi di disoccupazione, si mostrò punitiva tanto verso le donne quanto verso gli uomini “morbosamente egoistici”, cioè scapoli o sposati senza prole.
A differenza della Germania nazista, l’Italia fascista rinunciò ai provvedimenti eugenetici negativi. Non si vuol dire con ciò che l’Italia fascista non fosse eugenista, tuttavia l’ingegneria demografica del regime trasse origine da una concezione della razza assai diversa e sostenne un differente meccanismo di selezione razziale. A differenza della Germania l’Italia non aveva mai dovuto affrontare problemi di minoranze etniche, almeno fino a quando nel 1936 il duce non fondò l’impero in Africa con la conquista dell’Etiopia (e vennero perciò rapidamente approvate le prime leggi contro gli incroci razziali). Né i teorici della razza italiana temevano la prolificità delle classi popolari. Tutto il contrario. Ne celebravano la “fertilità differenziale” ed erano scettici circa la pseudoscientificità delle misure di selezione biologica dagli angloamericani e in seguito dai nazisti. La “rivoluzione dei giovani” fascista, teorizzata da Corrado Gini, il più importante studioso italiano di statistica demografica, si prometteva di utilizzare “l’unico serbatoio di energie vitali”, la campagna, con le sue “classi basse e prolifiche dai cui spostamenti interni e dai cui incroci sarebbe dipesa la riviviscenza della nazione”. E tali posizioni venivano rafforzate dai severi ammonimenti della Chiesa cattolica contro le “zootecniche applicate alla specie umana”. Ispirandosi a concezioni che potremmo definire in parte pessimistico laissez-faire maltusiano (la popolazione avrebbe sopravanzato le risorse) e in parte ottimismo darwiniano (i più adatti sarebbero sopravvissuti), il regime in tal modo tollerava e talvolta arrivava persino ad approvare pubblicamente le evidenti correlazioni che i suoi zelanti demografi rintracciavano fra le cosiddette famiglie “numerose” e la povertà, il sovraffollamento, la malnutrizione e l’analfabetismo.
Dire che la politica seguita dal fascismo sia stata fisicamente meno invadente dell’eugenetica nazista non equivale ad affermare che abbia pesato in misura minore sulle donne, soprattutto quelle povere. La politica demografica fascista sviluppò una doppia faccia. Da una parte fu energicamente normativa. Gli esperti consideravano le donne “malpreparate alla sacra e difficile missione della maternità, deboli o imperfette nell’apparato della generazione” e soggette pertanto a generare una prole “anormale”. Per correggere questi vizi lo Stato fascista ambiva a modernizzare il parto e la cura dei figli. D’altra parte l’eugenetica fascista giustificava una politica di non intervento almeno riguardo i cittadini più poveri. Se l’obiettivo era di aumentare le nascite, le riforme sarebbero state non solo costose ma persino controproducenti. Un tenore di vita più alto avrebbe potuto spingere la famiglia di un impiegato ad avere un secondo figlio, considerazione che giustifica la sollecitudine con cui la dittatura trattò il ceto medio impiegatizio. Nelle famiglie contadine lo stesso miglioramento avrebbe solo incoraggiato aspettative eccessive, facendo assumere anche a loro la mentalità calcolatrice che induceva le famiglie urbane a limitare le nascite.
Le conseguenze di questa politica bifronte furono gravi. Le donne italiane, soprattutto quelle appartenenti alla classe operaia urbana, volevano avere meno figli. “Un figlio unico, professore, un figlio unico noi vogliamo”, confidavano molte torinesi al dottor Maccone, un illustre pediatra. Per raggiungere lo scopo le donne praticavano la pianificazione familiare come potevano, ricorrendo principalmente all’aborto. Nonostante i draconiani divieti quest’ultimo divenne alla fine degli anni ’30 la forma di pianificazione familiare più diffusa. Dal momento che gli aborti erano tutti clandestini sia che fossero praticati da medici professionisti sia dalla “comare” del quartiere, le donne correvano elevati rischi di infezioni invalidanti, di danni fisici permanenti e di morte. Inoltre, il fatto che la repressione imposta al controllo delle nascite giungesse proprio nel momento in cui l’informazione ricominciava a diffondersi dopo parecchi secoli di censura controriformistica rese particolarmente coercitive le campagne antimalthusiane del fascismo. Soprattutto nelle aree rurali esse rafforzarono nei confronti dei processi riproduttivi un fatalismo sancito dalla religione. Ma anche ragazze appartenenti alla classe operaia settentrionale ricordarono “quasi con rancore” di essere rimaste ignoranti “come le bestie” circa i fatti riguardanti la vita sessuale. I nuovi modelli governativi, professionali e di mercato stabilirono per il parto e la crescita dei figli criteri sociali più elevati e stigmatizzarono, anche se in realtà non soppressero, i sistemi tradizionali. Non riuscirono tuttavia a fornire i mezzi sociali ed economici necessari a rendere le donne capaci di rispondere a questi nuovi criteri senza rilevanti sacrifici personali. La mortalità infantile diminuì di un quinto, passando dal 128 per mille del 1922 al 102 per mille del 1940, ma questo andamento fu all’incirca uguale a quello del ventennio precedente e mantenne ancora la mortalità infantile in Italia più alta del 25% rispetto alla Francia e alla Germania. In generale la maternità fascista fu esclusivamente “ad alta intensità di lavoro”. Non a caso durante gli anni ’30 le parole “sacrifici” e “stenti” attraversarono come un leitmotiv i resoconti femminili riguardanti la maternità e l’istinto materno.
La politica della famiglia (VI° paragrafo – Il patriarcato fascista – da La storia delle donne – Laterza Edizioni)
La politica fascista nei confronti della famiglia venne analogamente plasmata dalle continue pretese avanzate dal regime sulle risorse delle singole unità familiari. Gli ideologi lamentavano la crisi della famiglia italiana, le sue dimensioni sempre più piccole, la presunta perdita di autorità da parte del padre, il malessere delle casalinghe, il ricalcitrare dei figli. Le dimensioni delle famiglie, pur restringendosi in media da 4,7 membri a 4,3 fra il censimento del 1921 e quello del 1936, erano comunque ancora ampie: uno speciale censimento stimò che nel 1928 almeno due milioni di famiglie italiane (sull’insieme di 9,3 milioni) contassero sette figli viventi o anche più.
Quasi la metà delle famiglie viveva al di sotto dei 10 mila abitanti, e il 38% traeva la maggior parte dei propri guadagni dall’agricoltura. La percentuale di autoconsumo, cioè la quantità complessiva di beni e servizi prodotti da imprese familiari che non passava attraverso il mercato, era valutata pari al 30%. In ogni caso, la dittatura agiva fiduciosa che i legami della famiglia italiana fossero abbastanza forti da resistere alla pressione derivante dal taglio dei salari, dall’aver “scremato” i piccoli risparmi a vantaggio degli investimenti industriali e delle imprese coloniali, e ridotto le spese per i servizi pubblici, l’edilizia popolare e l’assistenza sociale. Tale pressione si fece più dura e ricevette un maggiore impulso propagandistico quando negli anni ’30 la dittatura lanciò la campagna per l’autosufficienza economica.
Questo programmatico sfruttamento delle risorse familiari fu palese soprattutto in due linee d’azione politica: la ruralizzazione e la politica dei bassi salari. La prima rivestì un’importanza particolare nel tentativo del regime di ridurre la dipendenza dalle importazioni di prodotti alimentari esteri, di grano soprattutto, e di fermare il flusso di contadini che si trasferivano nelle città e vi gonfiavano la disoccupazione e i registri degli istituti assistenziali, aggravando l’inquietudine sociale. L’intera campagna antiurbana, cui Mussolini accennò per la prima volta nel discorso dell’Ascensione parlando dell’influenza sterilizzatrice dell’urbanesimo e della necessità di tornare a condizioni di vita più rurali, dipendeva dalla possibilità di sfruttare le risorse delle famiglie contadine. I passi compiuti dal 1928 in poi per trasferire i disoccupati nei loro luoghi di residenza originari e frenare le migrazioni interne furono accompagnati dall’azione governativa a sostegno degli accordi di mezzadria, e dai progetti tesi a promuovere l’insediamento sui terreni assegnati dallo Stato nelle aree bonificate attraverso la concessione di contratti d’affitto a lungo termine. Il risultato finale fu di spingere le famiglie in zone di basso consumo, dove non erano protette dalla legislazione sociale e rimanevano spesso prive dell’assistenza municipale o parrocchiale.
Quindi la ruralizzazione sfruttò “l’ancora di salvezza” costituita da solidarietà di parentela. Ciò presupponeva e contemporaneamente rafforzava la coesione familiare, spingendo l’assillato capofamiglia ad aggravare in casa, nei campi e nelle piccole industrie rurali il lavoro non pagato delle donne e dei fanciulli. A differenza di quanto accadde nella Germania nazista non ci fu alcun tentativo di ripristinare i fidecommessi, cioè i lasciti ereditari inalienabili che mantenevano il patrimonio all’interno della famiglia trasmettendolo al figlio primogenito; una tale misura infatti avrebbe certamente costretto il fascismo a opporsi agli interessi agricoli e commerciali. Il regime favorì invece la ripresa di una forma di locazione vecchia di secoli, la mezzadria. Il cosiddetto “vergaro” o “capoccia” era un autentico patriarca; per poter contrattare con i proprietari terrieri in un periodo di prezzi agricoli calanti, egli esercitava uno stretto controllo sulle prestazioni lavorative fornite dalla moglie e dai figli. Con una media di 7,35 membri ciascuna le famiglie mezzadrili continuavano a essere tra le più numerose, e il lavoro della “massaia” o moglie del capofamiglia, pur essendo valutato pari soltanto a due terzi di quello compiuto dai parenti maschi anche nei contratti più favorevoli, superava in genere quello del capofamiglia stesso. Secondo gli investigatori dell’Istituto Nazionale d’economia agraria, all’inizio degli anni ’30 tre laboriosi agricoltori toscani di nome Giuseppe, Egisto e Faustino totalizzarono ciascuno 2926, 2834 e 2487 ore lavorative annuali, mentre le loro mogli Lucia, Virginia e Maria arrivarono rispettivamente a 3290, 3001 e 3655.
Il comportamento della dittatura riguardo ai salari “di sussistenza” o “familiari” rivelò nei confronti delle famiglie operaie un atteggiamento altrettanto sfruttatorio. L’idea che un uomo dovesse mantenere la moglie e le altre persone a carico unicamente con i suoi guadagni era ampiamente considerata, in Italia come altrove, d’importanza cruciale per rafforzare la stabilità della vita familiare e operaia. Prima della marcia su Roma i riformatori borghesi avevano sostenuto una posizione simile. I cattolici continuarono ad articolare questo punto di vista e nel 1931 l’enciclica di Pio XI Quadragesimo anno riaffermò il pensiero espresso da Leone XIII nella Rerum novarum (1891), secondo cui la giustizia sociale imponeva che “l’operaio ricev[esse] un salario sufficiente a mantenere se stesso e la sua famiglia”. Il Gran Consiglio del Fascismo si impadronì del concetto nel marzo del 1937 allo scopo di promuovere la politica demografica del duce. Ma era tardi. Gli stessi dati del censimento indicarono chiaramente che le riforme economiche fasciste avrebbero dovuto essere radicali per raggiungere un tale scopo: fino al 1931 il 45 per cento delle famiglie italiane, vale a dire 4.280.000 su un totale di 9.280.000, dipendeva dai guadagno di due o più persone, mentre su 5.000.000 di famiglie dipendenti da un unico reddito il 16 per cento aveva a capo una donna.
Difatti gli assegni ideati per integrare i redditi familiari incrementarono la maggior parte dei salari. Erano stati concepiti nel 1934 per aiutare i lavoratori con famiglie a carico che avessero subito riduzioni dell’orario di lavoro tese a limitare massicci licenziamenti. Finanziati da contributi ripartiti fra lo Stato, i datori di lavoro e i lavoratori, e versati ai capifamiglia secondo il numero di persone a carico, alla metà del luglio 1937 essi riguardavano tutti i dipendenti pubblici e privati, i lavoratori agricoli e quelli occupati nel commercio e nell’industria. Altrove, misure del genere vennero violentemente avversate dai sindacati e limitate di solito a settori industriali depressi come quello tessile e minerario. Il fatto che il fascismo fosse in grado di attuarle in tutta la nazione rifletteva l’infelice situazione della manodopera organizzata. Il sistema degli assegni familiari, oltre a inibire i tentativi compiuti dai sindacati fascisti per negoziare aumenti salariali, metteva in campo gli interessi dei lavoratori con famiglia a carico contro quelli dei lavoratori che non l’avevano. All’interno della realtà familiare veniva favorito il capofamiglia maschio; la moglie e i figli o le figlie non sposati che vivevano in casa, pur lavorando, non avevano diritto agli assegni. Cosa peggiore di tutte, non si affrontava il problema principale e cioè il fatto che la sopravvivenza della famiglia dipendesse dal lavoro di parecchi membri, tra i quali c’era spesso anche la madre. A dispetto dell’ideologia fascista la percentuale delle donne sposate che svolgevano un’attività lavorativa salì dal 12% del 1931 al 20,7% del 1936. Nell’Italia degli anni ’30 esisteva una percentuale di lavoratrici sposate (circa il 40%) più alta di qualsiasi altro paese europeo ad eccezione della Svezia socialdemocratica. Ma qui, com’e’ ovvio, le donne beneficiavano di una gamma relativamente ampia di tutele e servizi.
In teoria, il sistema di previdenza sociale e di assistenza alle famiglie che la dittatura andava sviluppando calmò le insicurezze prodottesi quando la maggiore urbanizzazione della società italiana e il volgersi dell’economia alla produzione di massa recisero la solidarietà familiare basata sulle comunità rurali e di artigiani urbani. Con Mussolini, affermava la propaganda, quando una madre i piega sulla culla dei figli l’intera nazione vi si piega con lei. Alla fine degli anni ’30 esisteva un “minestrone” di sigle indicanti i vari organismi statali e di partito cui potevano rivolgersi le famiglie che avessero problemi: l’INFPS, l’IPAP, L’INA, la CRI, l’INFAIL, l’OND, la GIL, tanto per nominarne soltanto alcune, per non parlare della già menzionata ONMI. Spesso, tuttavia, la bizantina complessità della burocrazia assistenziale fascista aggravava l’incertezza invece di dissiparla. L’intero sistema era stato posto in essere per convenienza politica e si innestava sulla millenaria eredità degli istituti di beneficenza privati e semiprivati sia cattolici che municipali. Per ottenere i benefici le famiglie dovevano far funzionare i sistemi clientelari fondati sui vincoli di parentela. Di conseguenza i parenti stretti i stringevano assieme, e le strategie di sopravvivenza rafforzavano ciò che i propagandisti di regime denunciavano talvolta come il “sacro egoismo” della “famigliola”. Così, proprio mentre accentuava il carattere pubblico dell’istituzione familiare, la dittatura fascista consolidava involontariamente quei comportamenti privati e “familistici” comunemente associati alla cultura civica italiana.
Questa stessa politica spingeva le donne italiane ad assumere nuovi ruoli all’interno della società. In teoria il fascismo le ricollocò nel focolare domestico, dove contribuivano al buon funzionamento della sfera privata generando figli e allevandoli. Man mano che la dittatura assegnava un sempre maggiore peso alla famiglia e favoriva per quest’ultima nuovi modelli di gestione, essa costrinse le donne ad acquisire una maggiore consapevolezza della cosa pubblica. Cosa non meno importante, le donne dovevano preparare i fanciulli al doposcuola fascista e a trascorrere l’estate nelle colonie marine o elioterapiche organizzate dal partito e dai comuni; se erano di povera condizione, diventavano “specialiste della assistenza” per strappare i sussidi allo Stato. Per la realizzazione dei suoi programmi lo Stato assistenziale fascista dipese largamente dal volontariato femminile. Donne di ceto sociale elevato giunsero così a giocare un ruolo importante nella definizione delle nuove norme di condotta familiare e nell’aiutare le donne di condizione inferiore a farle proprie. I modelli familiari che esse trasmisero alle “massaie rurali” e alle donne della piccola borghesia e della classe operaia attraverso corsi per casalinghe, lezioni sull’allevamento dei figli e riunioni informali patrocinate dai gruppi femminili fascisti, erano permeati dai convenzionali concetti borghesi di rispettabilità e di amministrazione domestica “razionale”. Questi modelli però si potevano raggiungere solo grazie a un massaismo ossessivo, a un minor numero di figli e a egoistici calcoli sul modo in cui sfruttare a vantaggio della propria famiglia scuole, organizzazioni politiche e servizi sociali del regime. Il risultato fu un’accresciuta consapevolezza della dipendenza della famiglia dai servizi dello Stato, e ciò favorì senza dubbio un certo senso di gratitudine nei confronti del regime. La propaganda acclamava il duce come artefice di una straordinaria quantità di “primati” legislativi. Ma la dipendenza induceva anche a rendersi conto dei conflitti fra interessi familiari e dovere patriottico. “Giudichi Lei, professore”, disse a Luigi Maccone un’operaia torinese protestando contro le campagne demografiche del regime, “è giusto, è umano che noi popolane abbiamo numerosi figli, destinati alla guerra quando saranno adulti? Ah, giammai! Noi vogliamo bene ai nostri figlioli, li alleviamo meglio che possiamo, coi nostri miseri mezzi, per noi, pel loro avvenire sempre migliore, ma non per la patria”.
La politica del lavoro (VII° paragrafo – da Il patriarcato fascista – La storia delle donne – Laterza Edizioni)
A differenza della socialdemocrazia svedese, che nell’interesse della propria politica demografica tentava di conciliare il bisogno femminile di lavorare con gli oneri della maternità, il fascismo teorizzava una rigida divisione del lavoro: gli uomini si occupavano della produzione e del sostentamento della famiglia; le donne della riproduzione e del governo della casa. Anche i dirigenti fascisti erano però sufficientemente realistici da riconoscere che le donne lavoravano; secondo i dati forniti dal censimento del 1936 il 27% dell’intera forza lavoro era costituito da donne, e circa il 25% delle donne in età da lavoro possedeva un’occupazione.
La caratterizzazione sessuale favorì la femminilizzazione dei lavori impiegatizi e in conseguenza della legge Sacchi del 1919 le donne vennero riconosciute idonee alla maggior parte degli impieghi statali, tranne alcune eccezioni fra cui le principali riguardavano le forze armate e le carriere giudiziaria e diplomatica. Alla fine, il fascismo sviluppò la legislazione per impedire alle donne di competere con gli uomini sul mercato del lavoro e per tutelare le madri lavoratrici. Ma lo scopo era anche un altro, evitare che le donne considerassero il lavoro retribuito come un trampolino verso l’emancipazione. Mentre il lavoro era indispensabile alla costruzione di una solida identità maschile, l’occupazione femminile, come dichiarò Mussolini, “ove non è diretto l’impedimento distrae dalla generazione, fomenta una indipendenza e conseguenti mode fisiche-morali contrarie al parto”.
Alla metà degli anni ’30 esistevano svariate misure discriminatorie. Un primo tipo, dagli storici del fascismo di solito trascurato, riguardava la stessa riorganizzazione del lavoro all’interno delle istituzioni corporative. La legge fascista sul lavoro, vietando gli scioperi e centralizzando le trattative sindacali, danneggiò gli interessi dei lavoratori in generale. Ma colpì in modo particolare le lavoratrici abbassando i salari maschili a livelli competitivi con quelli delle donne e dei fanciulli, spingendo i sindacati – incapaci di difendere i livelli salariali o di controllare le condizioni delle maestranze – a negoziare concessioni non monetarie come le restrizioni imposte all’occupazione femminile, e favorendo infine i lavoratori più avvantaggiati, vale a dire quelli specializzati, quelli con maggiore anzianità e quelli impiegati in settori investiti di importanza politica; la maggior parte di questi ultimi era costituita da maschi. Nonostante gli appelli di Regina Terrazzi, Ester Lombardo, Adele Pertici Pontecorvo e altre influenti “lealiste” del fascismo, le donne non erano rappresentate nella gerarchia corporativa. Esisteva al massimo una mezza dozzina di consulenti donne, e un motivo non secondario era costituito dal fatto che meno di una quarantina di donne italiane possedeva la laurea in legge o scienze politiche necessaria per entrare nella burocrazia del ministero delle Corporazioni.
D’altronde le istituzioni femminili del partito si profilavano come una alternativa alle organizzazioni sindacali corporative. Quella delle “massaie rurali”, fondata nel 1934 per le contadine, e la Sezione operaie e lavoratrici a domicilio (SOLD), organizzazione dipendente dai fasci femminili istituita nel 1938, fornivano una parte dei servizi che i sindacati fascisti offrivano agli uomini, come ad esempio corsi di specializzazione o informazioni sul modo di ottenere l’assistenza sociale. L’erogazione di questi servizi si accompagnava in ogni caso all’esplicito messaggio secondo cui la “solidarietà” fascista rivestiva un differente significato per gli uomini e per le donne. I lavoratori maschi appartenevano a gruppi sindacali e si impegnavano in contrattazioni collettive, mentre le donne beneficiavano dell’attività di gruppi diretti dal partito e avevano accesso ai sussidi statali. Gli uomini beneficiavano del contratto di lavoro, costituivano una base da rappresentare e venivano interpellati dai fiduciari di fabbrica; le donne invece erano delle assistite, oggetti della beneficenza sociale, e i loro principali interlocutori erano le assistenti sociali addestrate dal partito (le “visitatrici fasciste”).
Una seconda forma di discriminazione era costituita dalle significative innovazioni introdotte dalla dittatura nel campo della legislazione protettiva. Nel 1938, le lavoratrici avevano obbligatoriamente dritto a un congedo di maternità della durata di due mesi coperti da un sussidio di maternità pari alla paga media percepita nello stesso arco di tempo, a un congedo non retribuito lungo fino a sette mesi, e a due pause giornaliere per l’allattamento finchè il bambino non avesse compiuto un anno. La dittatura rese inoltre più severe le norme che proibivano i lavori notturni a tutte le donne, e quelli pericolosi o nocivi alla salute alle ragazze di età inferiore ai 15-20 anni e ai maschi sotto i 15; vietavano invece ogni tipo di lavoro ai minori di 12 anni.
Questi provvedimenti combaciavano con il più famigerato, se non più efficace, tipo di misure discriminatorie, vale a dire le leggi “di esclusione” vere e proprie. Dalla chiusura, all’inizio degli anni ’20, di quell’importante valvola di sfogo che gli Stati Uniti avevano costituito per l‘emigrazione, la cronica disoccupazione maschile era peggiorata. La situazione si aggravò ulteriormente durante la Grande Depressione. Invece di sovvenzionare i lavori pubblici come altre nazioni in quegli anni, e forse nel timore che la ripresa delle assunzioni industriali stimolata dal riarmo potesse favorire la manodopera femminile, nel 1934 il governo rafforzò in alcuni settori le limitazioni contrattuali imposte alle donne. Il provvedimento più draconiano fu il decreto legge del 5 settembre 1938 che fissò un limite del 10% all’impiego di personale femminile negli uffici pubblici e privati. Esso suscitò ansiose proteste da parte delle impiegate, anche se si cominciò ad attuarlo soltanto nella primavera del 1940, cioè quando la maggior parte delle restrizioni circa l’assunzione di personale femminile stava per essere eliminata per facilitare la mobilitazione bellica.
Riassumendo, la politica fascista nei confronti del lavoro femminile espresse una serie di paradossi. Il regime cercò di saziare la fame industriale di manodopera a basso prezzo, la quale avrebbe potuto essere soddisfatta ricorrendo tanto alle donne che agli uomini. Intendeva però assicurare il mercato del lavoro ai capifamiglia maschi per non rischiare di intaccare l’amor proprio degli uomini che si trovavano disoccupati e per non incidere sulla sanità della razza e la crescita demografica. I legislatori fascisti affermavano di volere escludere le donne dalla forza lavoro. Ma sapendo che ciò non sarebbe avvenuto, si misero a proteggere le lavoratrici nell’interesse della stirpe contando sui vecchi pregiudizi sessuali del mercato del lavoro e allo stesso tempo sull’inuguaglianza dei sessi favorita da “l’inquadramento” nell’ordine corporativo, la dittatura emanò norme protettive, diffuse atteggiamenti discriminatori e promulgò leggi “di esclusione”. Questi provvedimenti interagirono con le tendenze in atto nel mercato del lavoro facendo assumere alla forza lavoro italiana la sua caratteristica fisionomia sessuale. Il primo effetto fu di riservare agli uomini i posti di alto prestigio e sempre meglio retribuiti all’interno della burocrazia statale, frenando la tendenza verso la femminilizzazione dei lavori d’ufficio almeno nelle amministrazioni centrali dello Stato. La politica di governo rassicurò inoltre i sindacati fascisti sul fatto che il regime si stesse interessando della disoccupazione maschile, sebbene vi siano in realtà scarse prove che gli uomini venissero preferiti alle donne nelle assunzioni, ceteris paribus – salvo forse nell’industria dei tessuti sintetici, politicamente delicata nonché palesemente nociva alla salute. Cosa di non minore importanza, questa politica favorì la costituzione di una forza lavoro femminile a tempo parziale, discontinua e “in nero”. Lo dimostra il significativo aumento delle domestiche. Nell’Italia tra le due guerre esse passarono da 445.631 nel 1921 a 660.725 nel 1936, mentre il loro numero diminuì in tutti gli altri paesi dell’Europa industrializzata; persino le famiglie della piccola borghesia facevano assegnamento su personale di servizio.
Incapaci di difendere il proprio diritto al lavoro sulla base della parità sessuale, le lavoratrici ridimensionarono aspirazioni e rivendicazioni. Per giustificare il bisogno di lavorare addussero a pretesto la “necessità familiare”, o il fatto che si trattava solo di un ripiego temporaneo, oppure che i posti da loro occupati erano troppo umili o troppo segnatamente femminili per essere adatti agli uomini. Le professioniste stesse, che una volta avevano fatto causa comune con le donne della classe operaia e adesso erano organizzate in istituzioni fasciste del tutto separate come l’ANFAL – Associazione Nazionale Fascista Artiste e Laureate – legittimarono questi atteggiamenti. Esse difendevano il diritto femminile di accedere alle carriere purchè non contrastasse con i doveri familiari, e sostenevano la formazione professionale delle donne nei ruoli di assistente sociale, di infermiera e di insegnante, tutte occupazioni che oltre ad addirsi in modo particolare alle qualità femminili davano maggiore assicurazione di promuovere il progresso nazionale. Pur parlando di discriminazioni sul lavoro ne davano la colpa alla gelosia maschile, piuttosto che al sistema fascista.
L’organizzazione politica (VIII° paragrafo – Il patriarcato fascista -da La storia delle donne – Laterza edizioni)
Il fatto che il regime radunasse le donne in un’ampia gamma di organizzazioni di partito può sembrare a prima vista in contrasto con il suo tentativo di escluderle dalla sfera pubblica. A differenza dei regimi conservatori, tuttavia, il fascismo comprese che le sue sociali e sessuali, proprio perché ambivano ad essere “totalitarie”, non potevano essere realizzate senza il consenso dei suoi sudditi sia femmine che maschi. Infatti, nella misura in cui la dittatura aggravò le già acute divisioni sociali e sessuali all’interno della società italiana, spettò al PNF promuovere uno svariato numero di organizzazioni femminili. Entro la fine degli anni ’30 esso aveva completato la serie, che comprendeva i fasci femminili – il primo nucleo dei quali era stato fondato nel 1920, rivolti principalmente alle classi medie urbane -, le massaie rurali (1934) per le contadine e il SOLD (1938) per le operaie, le piccole italiane, nonché le sezioni femminili dei GUF (gruppi universitari) e le giovani fasciste. Alla vigilia della II guerra mondiale circa 3.180.000 donne possedevano la tessera dell’una o dell’altra organizzazione del partito.
Inizialmente, tuttavia, il PNF aveva diffidato a tal punto dei movimenti d’emancipazione delle donne da rimandare a lungo la decisione di autorizzare organizzazioni femminili di partito. Si era mostrato francamente ostile alle richieste di appoggio provenienti dalle sue prime seguaci , e aveva schiacciato duramente le speranze d’emancipazione delle fasciste “della prima ora” trattando con disprezzo, ignorando o in qualche caso addirittura espellendo le loro dirigenti fondatrici, in gran parte donne settentrionali colte e di famiglia altolocata.
Fino all’inizio degli anni ’30 il numero delle aderenti ai gruppi femminili cattolici superava quello delle iscritte ai fasci femminili. Sino al 1931, quando fondò l’Accademia di Orvieto, il PNF non aveva elaborato alcun piano, neanche limitato, per la formazione di quadri femminili né lo fece in modo significativo fino a dopo il 1936. solo alla fine del 1937 il partito assegnò una Fiat 1100 alle fiduciarie delle sezioni femminili delle federazioni provinciali. Prima di allora esse devono aver viaggiato sui mezzi di trasporto pubblici; o più probabilmente, vista la posizione altolocata di molte di loro, venivano accompagnate in automobile da autisti di famiglia.
La mobilitazione femminile di massa cominciò solo all’inizio degli anni ’30. il primo appello per aumentare le iscrizioni ai fasci femminili fu lanciato all’inizio della depressione; le volontarie appartenenti alle classi superiori dovevano “andare verso il popolo” prestando la propria opera nelle cucine popolari e negli uffici dell’assistenza sociale, per nutrire o altrimenti assistere i poveri. Il successivo appello fu rivolto alle “donne d’Italia” al tempo della guerra d’Etiopia, allo scopo di rendere ogni famiglia “un fortilizio di resistenza” contro le sanzioni imposte dalla Società delle Nazioni. Nel 1935-37 il numero delle iscritte ai gruppi femminili fascisti crebbe rapidamente. Il terzo appello tentò di trasformare “l’amore di patria” delle donne in una più penetrante e attiva “sensibilità nazionale”; ciò avrebbe dovuto prepararle alla guerra totale e far crollare ogni distinzione tra dovere privato e servizio pubblico, tra abnegazione personale, interessi della famiglia e sacrificio sociale.
L’irreggimentazione fascista delle donne fu tuttavia assai tenue a paragone di quella nazista. In Italia non ci fu alcuna signora Fuhrer uber alles” come Gertrund Scholtz-Klinck, che esercitò la propria influenza attraverso la sezione femminile della NSDAP, venne infine ammessa nella gerarchia nazista e si vantò di regolari colloqui con Hitler. I fasci femminili erano diretti da comitati posti sotto il controllo del segretario del PNF. A differenza delle organizzazioni maschili che, grazie alla semplice forza numerica e all’accresciuta influenza burocratica a Roma riuscirono in qualche modo a costituire un mezzo d’espressione per i propri componenti, i gruppi femminili furono incapaci di dare voce ai problemi delle donne. Se pure i loro capi di elevata estrazione avevano qualche voce in capitolo era solo in virtù della propria distinzione sociale, o per il fatto di avere mariti altolocati. Il regime era infatti propenso a riprendere ai gruppi femminili il compito che originariamente aveva delegato loro, vale a dire l’assistenza sociale. I teorici dello Stato totalitario considerava l’erogazione dell’aiuto statale una tappa puramente temporanea verso la creazione dello Stato assistenziale onnicomprensivo. Quest’ultimo, si supponeva, sarebbe stato guidato dalle scienze attuariali, non dai sentimenti, e si sarebbe avvalso di personale maschile, non femminile. Le dirigenti dei servizi sociali, molte delle quali erano state un tempo femministe “pratiche”, difesero infine il diritto femminile di fornire personale a questa funzione pubblica tanto importante. Solo le donne avevano infatti la sensibilità per “penetrare i segreti dell’animo altrui e comprenderne i veri sentimenti”. Esse avevano inoltre nei confronti della società il dovere di essere attive fuori dagli stretti confini dell’ambiente familiare e, cosa non meno importante, soltanto loro avrebbero potuto “colmare le inevitabili lacune delle provvidenze statali”.
Alla fine il sistema fascista di organizzazione delle donne fu messo alle strette da un paradosso. Il compito delle donne era la maternità. Come “custodi del focolare” la loro vocazione primaria era quella di procreare, allevare i figli e amministrare le funzioni familiari nell’interesse dello Stato. Ma per poter eseguire questi doveri occorreva che fossero coscienti delle aspettative della società. Se non fossero state tratte al di fuori dell’ambito familiare dai nuovi impegni sarebbero state incapaci di congiungere gli interessi singoli a quelli della collettività. In linea di massima, durante il fascismo la via che conduceva fuori dal focolare domestico non portò all’emancipazione ma a nuovi doveri nei confronti della famiglia e dello Stato, non all’autonomia ma ad obbedire a nuovi padroni. Amministrare il significato della partecipazione politica femminile costituiva inevitabilmente un compito difficile. Le dirigenti amavano descrivere le giovani affidate alle loro cure come fanciulle che combinavano “nobilissime tradizioni” con la “modernità dei tempi”, come “creature di virile ardimento, ma di squisita femminilità”. L’organizzazione politica comportava inevitabilmente il rischio di aumentare il desiderio d’emancipazione delle donne. Come minimo, le distraeva dal loro dovere principale di “madri di pionieri e di soldati”.
Concludendo, il patriarcato fascista fu il prodotto di un’epoca in cui la politica demografica si identificava strettamente con la potenza nazionale. Il fascismo affrontò il problema dal punto di vista di una coalizione sociale conservatrice e nel quadro di strategie economiche che imposero pesanti oneri sulle risorse dei lavoratori e delle famiglie. Attraverso il mercato del lavoro e le gerarchie d’autorità all’interno dell’unità familiare, esso scaricò il maggior peso possibile sulle donne. Allo stesso tempo, la dittatura mussoliniana costituì una specie di risposta alla politica di laissez-faire dei suoi predecessori liberali. Come nell’ambito della politica propriamente detta, il fascismo impegnò i poteri d’emergenza dello Stato anche nel campo della politica sessuale al fine di istituire un nuovo ordine morale che ripudiasse la trasgressiva politica in materia dell’era liberale. Esso riconobbe alle donne il diritto di cittadinanza pur negando a quest’ultimo qualsiasi significato emancipatorio. Sfruttando l’inquietudine di molte donne – e uomini – nei confronti di forze di mercato caotiche, e il rapido mutamento dei modelli di fertilità, costume sessuale e vita familiare, il regime fascista presentò se stesso come capace di proteggere gli interessi della famiglia e allo stesso tempo di riconciliare questi interessi con il suo grande sforzo di “rigenerazione nazionale”.
Il dominio esercitato sulle donne italiane dalla dittatura fu in tal modo caratterizzato da una complessa mescolanza di protezionismo paternalistico e di benevola noncuranza, di incentivi concreti e di meschine restrizioni. Non a caso, la concezione maggiormente totalitaria della politica familiare, formulata dal giovane cattolico Ferdinando Loffredo, arrogante ancorché brillante studioso di scienze sociali, invitava il regime a essere sia più riformatore sia più repressivo. Nel suo spesso citato “Politica della famiglia” (1938) questi invocava la costituzione di ciò che potremmo definire una “famiglia neopatriarcale”. Dominata dal padre e incentrata sulla madre, essa sarebbe stata devota alla razza più che a un singolo regime. Per darle impulso il fascismo avrebbe dovuto rinnegare le elargizioni di elemosina “manchesteriane”, i sussidi di maternità e i premi demografici, che assecondavano una logica individualistica; e anche le iniziative politiche che minavano la solidarietà familiare, come i circoli del dopolavoro promossi dal partito, i gruppi giovanili e le celebrazioni collettive della “Befana” fascista. Una vera riforma avrebbe voluto dire invece aumentare il salario familiare, tassare proporzionalmente al carico di famiglia ed erogare non sussidi ma servizi destinati alla famiglia in modo simile a quanto avveniva contemporaneamente in Svezia. Tali riforme, tuttavia, non solo non avrebbero risolto il “problema sociale” suscitato dalle donne a cui si riferiva Myrdal ma minacciava addirittura di aggravarlo. Le donne rischiavano di sconvolgere la stessa politica tesa a riconoscere la centralità femminile nella vita della famiglia, e di quest’ultima nella sopravvivenza della razza e della nazione. La natura le rendeva infatti sensibili alle filosofie individualistiche e particolarmente inclini ad associare queste ultime alle ideologie della famiglia. Oltre a realizzare le riforme, dunque lo Stato avrebbe dovuto esercitare un potere totale, in primo luogo per istituire la “autarchia spirituale della nazione” e arrestare così il corrompente afflusso di ideologie individualistiche dall’estero, e poi per incoraggiare la pubblica opinione a escludere le donne dalla forza lavoro e dall’arena pubblica. Per risultare efficaci le riforme avrebbero dovuto procedere di pari passo con la repressione; le donne, concludeva pertanto Loffredo, “devono tornare ad un’assoluta soggezione all’uomo, padre o marito che sia; sottomissione, e perciò inferiorità, spirituale, culturale ed economica”.
La stessa contraddittorietà del patriarcato fascista aprì inevitabilmente le porte al dissenso. Subito dopo il decreto legge del 5 settembre 1938 un gruppo di impiegate presentò a Mussolini una petizione: come poteva il fascismo voltare le spalle alle “donne italiane”, che avevano aderito con “zelo” alla sua richiesta di sacrifici durante la guerra d’Etiopia? Le giuriste celebravano il decennale della rivoluzione fascista ma i loro commenti alla legislazione familiare misero in risalto che i costumi erano progrediti assai più di quanto non ammettessero le nuove leggi. Le scrittrici, colpite dalla svolta misogina della politica dopo il 1925, popolavano i loro romanzi di eroine sottomesse; il loro fervore masochistico le faceva apparire fataliste circa il proprio destino quando invece se ne vendicavano sul mondo. Le donne del popolo iniziarono “scioperi delle nascite”, in flagrante violazione dell’ordine di proliferare impartito dal regime. Al pari dei giovanotti appartenenti alla “generazione del Littorio”, alla fine degli anni ’30 un numero crescente di studentesse universitarie, vedendo nel regime sempre più invecchiato un ostacolo alla realizzazione delle proprie legittime ambizioni di carriera, iniziò ad abbracciare il marxismo e le ideologie sociali cattoliche.
Ciò che univa assieme rivendicazioni tanto diverse non era tanto una qualche sensibilità femminile comune, quanto piuttosto il fatto di reagire tutte ad un unico sistema di dominio. Nel corso di due decenni la dittatura formulò riguardo le donne nuovi concetti di cittadinanza, e tuttavia ne frustrò la realizzazione. Il fascismo decise fin dal principio di trattare le donne come un entità unica legando il loro comune destino biologico di “madri della razza” alle ambizioni dello Stato nazionale. Inasprendo le differenze di reddito e di privilegi lo Stato fascista divise le donne in base alla casta e alle funzioni. Le leggi, i servizi sociali e la propaganda affermavano la suprema importanza della maternità; e tuttavia la povertà, il magro sistema di assistenza sociale e infine la guerra resero l’essere madre un’impresa eccezionalmente ardua. Il fascismo definiva la famiglia il pilastro dello Stato; ma le strategie familiari di sopravvivenza accentuarono le tendenze antistatalistiche all’interno della società italiana. La politica di massa impose la partecipazione delle donne alla vita pubblica. E tuttavia le esigenze familiari, i costumi sociali e la stessa ambivalenza mostrata dai dirigenti fascisti riguardo al coinvolgimento delle donne nella sfera pubblica impedirono alla vasta maggioranza di esse di essere coinvolte nell’entusiasmo ritualizzato della politica di massa.
Allo stesso modo, il sistema fascista condizionò profondamente il modo in cui le donne – e gli uomini – immaginarono il proprio destino, espressero il proprio malcontento e videro le conseguenze delle loro proteste. Le donne italiane furono spiccatamente attive nella Resistenza. Questa si sviluppò da Napoli in su alla fine dell’estate del 1943, dopo che con l’appoggio del re Vittorio Emanuele II il 25 luglio il Gran Consiglio ebbe esautorato Mussolini in una rivoluzione di palazzo; si diffuse poi nelle regioni centrosettentrionali, quando il vile governo provvisorio del maresciallo Badoglio fuggì il 9 settembre dopo aver firmato un armistizio con gli Alleati, abbandonando il paese all’occupazione tedesca. All’inizio del 1945 la Resistenza contava circa 250.000 attivisti. Per quanto riguarda le donne, 70.000 erano nei Gruppi di difesa della donna e 35.000 operavano come forze combattenti. Altre decine di migliaia di donne, inoltre, offrivano nascondiglio e assistenza ai partigiani, aiutavano soldati sbandati italiani e stranieri, proteggevano gli ebrei in fuga dalla polizia nazifascista e salvavano uomini italiani dalla coscrizione per il lavoro coatto in Germania. Ben 46.000 vennero arrestate, torturate e processate, 2.750 furono deportate nei campi di concentramento tedeschi, e 623 giustiziate o uccise in combattimento. Si trattò in maggioranza di operaie e contadine vicine alla resistenza comunista, le cui comunità bene organizzate e le cui fedi politiche di vecchia tradizione familiare rafforzarono le reti dell’opposizione. Ma vi furono anche donne del ceto medio cattolico, e almeno una ventina appartenenti a illustri famiglie aristocratiche tra cui Maria Josè, la nuora di Vittorio Emanuele III nata in Belgio e di tendenze socialiste.
Senza dubbio la guerra, accompagnata dopo il 1943 dalla crudele occupazione tedesca, costituì uno stimolo importante per entrare nella Resistenza. Essa dimostrò l’incapacità delle donne di realizzare la quadratura del cerchio, adempiere cioè il proprio dovere patriottico consegnando stoicamente figli e mariti a uno sforzo bellico palesemente inetto e mettendo allo stesso tempo il pane in tavola. Dopo il 1943 la “coscienza femminile” – per usare l’espressione di Temma Kaplan – vale a dire il senso degli obblighi collettivi radicato nell’accettazione femminile di una visione del lavoro sociale basata sul sesso, si legò alla “coscienza comunitaria” che unì uomini e donne nella lotta per liberare l’Italia dai nazifascismi. Più difficile è scoprire dietro questa partecipazione femminile un’ispirazione specificamente femminista. Movimento politico e sociale per la libertà e la giustizia sociale, e guidata da partiti politici intenti a guadagnare posizioni di forza nella ricostruzione italiana dopo la fine della guerra, la Resistenza non incoraggiò la critica della supremazia maschile, né si propose di affrontare il complesso problema costituito da una ridefinizione dell’identità femminile e dei sessi necessaria per opporsi agli insidiosi condizionamenti esercitati da due decenni di sviluppo nazionale sotto il dominio fascista. Quando arrivò il giorno di celebrare le vittorie della Resistenza il contributo delle donne fu in generale “taciuto”. La nuova Repubblica, pur ammettendo una parità formale sul mercato del lavoro e concedendo alle donne il voto, conservò la legislazione penale e familiare, oltre agli innumerevoli costumi sociali e comportamenti culturali residui dell’era fascista.
Un testo che ho trovato illuminante riguardo alla costruzione a scopi politici e coloniali del mito della differenza naturale fra uomini e donne e alla promozione del virilismo è il testo di Sandro Bellassai “L’invenzione della virilità”, ed Carocci. Il periodo trattato va dalla fine dell’Ottocento a oggi, con un’attenzione particolare proprio al ventennio e alla colonizzazione del Corno d’Africa.