Nel nord ci sono tralicci lungo tutte le strade. Inquinano e illuminano. Fanno venire mal di testa talmente grossi che li puoi toccare con le mani. Nel sud con le mani afferri solo il buio. In Sicilia basta un temporale, a volte anche una folata di vento, per rimanere senza luce. In casa avevamo tante candele. C’erano quelle lunghe e bianche, fatte per durare. Si mettevano al centro della tavola dove si svolgeva tutta la nostra vita. Mangiare, bere, parlare, studiare. A volte anche litigare. Poi c’erano le candele per i morti, i lumini. Si lasciavano negli angoli dei pianerottoli delle scale. Perché andare a fare pipi’ altrimenti diventava una avventura senza fine. In bagno si portava la candela dell’ultimo scalino. Poi bisognava rimetterla a posto.
La luce era una cosa preziosa. Io che da bambina amavo leggere i libri tutti d’un fiato avevo un buon rapporto con il sole. Si leggeva meglio alla luce del giorno. Ma l’energia in Sicilia aveva comunque il tempo giocherellone delle burle. La luce ti abbandonava nei momenti più tragici. Mentre stavi asciugando i capelli con il phon. Quando dovevi guardare il film preferito in televisione. Mentre c’era qualcuno sotto i ferri in sala operatoria. Quando dal dentista avevi un trapano che ti spaccava le gengive. Quando a cosce larghe aspettavi di partorire (ma questa è un’altra storia e prima o poi ve la racconterò). La frase che sintetizzava l’ansia da buio era: “vai a vedere se si è staccato il contatore!”
E si andava a turno. Perché spesso si staccava solo ad accendere il frigorifero, un phon e la tivvu’ insieme. I pali della luce in Sicilia non sono così grandi. Sono solo pali, piccoli e stretti e quei fili si staccano appena un tuono li fa vibrare. Così una intera zona può restare al buio per ore o forse giorni.
Una volta è capitato che è piovuto forte. Il giorno dopo si è saputo che erano annegate due persone. Trascinate dalla corrente. Non quella di un fiume, no. In Sicilia, dentro le città, non ci sono fiumi così grandi da poter straripare. I due corpi sono stati trascinati assieme alla loro auto, sbattuti e spogliati e poi ritrovati molto più giu’, scaraventati in un torrente. In quel posto la pioggia aveva lo stesso effetto delle cascate. Nessuno pensava fosse importante. La volta dopo crollò mezzo paese. Crollarono le case abusive e il terreno d’argilla. Tutto precario. Paradossi di un posto dove la natura muore di siccità. Di Sicilia potevi vivere o morire. Saresti comunque rimasta al buio.
La corrente andò via anche quella notte che ci fu il terremoto. Io ho sentito tremare la terra tante volte. In due casi ho avuto davvero paura. La prima ero seduta, di notte, a studiare. Il vulcano vigilava su di noi. Mi sentii improvvisamente schiacciare in basso. Non riuscivo a muovermi. Pensavo solo che dovevo prendere mia figlia e correre fuori. Durò pochi secondi e io abbracciai la piccola. La strinsi forte e la coprii con quello che trovai. Scesi in strada e raggiunsi tanta altra gente nella piazza del mercato. Era grande e larga. Il crollo delle case attorno non ci avrebbe sfiorate. Avevo le pantofole, i capelli raccolti in due treccine discole e una tuta con due strisce bianche ai lati. Non potrò dimenticarlo mai. Era pieno inverno e un signore si avvicinò per avvolgermi con una coperta. Poi mi avrebbero raggiunto i parenti e fu una grande festa.
Ci fu chi accese il fuoco e altri che portarono salsicce e carciofi da arrostire. Mi offrirono un bicchiere di vino e rimasi così, a piedi nudi con le ciabatte che scivolavano sempre, a sniffare quegli odori di cose buone e ad osservare quelle persone che l’attimo prima mi offendevano perché ero una donna non sottomessa ad un uomo manesco e un momento dopo mi rianimavano con il calore della gente alla buona, quella che nel bene e nel male non si fa mai i cazzi propri. Quella per cui vale solo l’uso del verbo “immischiarsi”, che ti respinge e ti accoglie in maniera egualmente rapida e per questo a volte, con la generosità del sud, rischia persino di salvarti la vita.
Il buio era rischiarato dalla luce del fuoco e tutti parlavano del più e del meno come in una qualunque festa di piazza. Io guardavo quella figlia che mi era costata sangue e dolore e che dormiva, ignara di tutto, e aveva un gran sorriso stampato sul viso. Il cielo brillava di stelle. Perché nel sud senza fabbriche e lavoro le stelle ogni tanto si vedono ancora. La mia famiglia portò coperte e cuscini. Riuscì a raggiungere la piazza con la macchina: “per farci dormire mia nipote” – urlava preoccupato mio padre.
Mia madre portò anche le carte siciliane e quelle da ramino. Per ogni evenienza. Deformazione professionale derivante dalla sua perenne attività di animatrice dei lunedì di pasquetta. Finimmo la nottata giocando a scala quaranta. La luce tornò solo dopo due giorni. Noi, però, eravamo ancora vivi.
La seconda volta abitavo nel centro storico di Palermo. La casa si è spaccata in due e io ho avuto la netta sensazione di essere sbalzata fuori dal letto e di scivolare giù attraverso le fessure del balcone. La scossa durò un minuto intero. Ringraziai marx, bakunin, e pure gli squallor per avere acconsentito a far dormire la mia prola dalla nonna, residente in una casa di cemento armato con fondamenta realizzate con procedure antisismiche. Quando riuscii ad alzarmi fui subito in un’altra stanza. Poi indossai le prime cose che mi capitarono a tiro e presi gatto e esseri umani dei dintorni per andare in un’altra piazza. C’era tutto il quartiere. C’erano tanti amici. Qualcuno disse che avrebbe concluso la nottata con un terremoto gay party. Il panellaro mise in azione la sua abilità e cominciò a distribuire pane e panelle a tutti i presenti.
All’alba quella colazione era come un pugno nello stomaco. Ma era mattinata di festa perché in Sicilia ogni disgrazia diventa come la giornata d’uscita della santa, in quel caso Rosalia, Rosi per gli amici e i più devoti. Chiacchiere e risate di un quartiere fatto di mille colori e altrettante lingue. Ricordo che quella mattina persino il tipo del bangladesh del piano di sotto riuscì a rivolgermi un sorriso. Gli ero antipatica perché una notte che picchiava sua moglie gli avevo urlato di finirla o avrei chiamato qualcuno. La suocera lo buttò fuori e quello tentò di arrampicarsi lungo i tubi di scolo dell’acqua. Ne ruppe uno, che era già marcio di suo, e cadde all’indietro. Così andò via. Il giorno dopo la moglie mi portò una pietanza piccantissima, specialità del suo paese, così mi disse. Davanti al marito non mi avrebbe mai più neppure salutata ma per qualche incomprensibile ragione aveva voluto ringraziarmi.
Io, il gatto e gli esseri umani presenti andammo allora a cercare un posto sicuro per dormire e aspettare altre scosse di assestamento. Non ce ne furono. Non così grosse come quella che aveva avuto come epicentro Ustica. Movimenti tellurici a parte, la luce in quel caso andò via per una notte. Non dappertutto. Nei paesi. In città, invece, solo in alcune zone. Dove i fili non puoi districarli tanto sono intrecciati e confusi l’uno all’altro. Dove la luce “quasi” te la danno gratis perchè spesso i proprietari la rubano e poi te la fanno pagare aggiungendo più zeri all’affitto. Ma la luce rubata spesso ha sbalzi di tensione che bruciano ogni cosa. Così a volte è proprio meglio il buio.
Noi siciliani preferiamo la luce del giorno. Ci fa vedere più chiaro. Di quella artificiale non ci fidiamo. Non possiamo contarci. Diffidiamo anche di luminosità divine. Persino il nostro buio è chiaro e limpido. Perciò nelle nostre teste conserviamo ricordi lunari. Abituati come siamo a ragionare con la luce naturale. Ricomponiamo puzzle. Lo facciamo di mestiere. Perchè l’Enel può trattarci da terzo mondo e portarsi via la luce o non permetterci di sfruttare l’energia solare o quella eolica (perché non da i permessi per la connessione in rete) ma non può rubarci l’abilità di ragionare o di vivere.
Per fortuna esiste il fuoco.
Lo abbiamo in corpo. Lo abbiamo nelle vene. Bruciamo di luce intima. E per questa energia nessuno dovrà mai fare guerre…