E’ lo sport più praticato del nostro tempo: la ricerca di lavoro! Richiede ottimismo, buona volontà, energia, una discreta dose di allenamento, soldi, alternative utili per non pensare agli insuccessi. Il “cerca lavoro” è quello che in pratica faccio di mestiere. Il lavoro è quello che mi capita nelle pause, effettivamente mai troppo lunghe perchè potrei farci l’abitudine. Nella mia professione sono diventata davvero brava e la svolgo con organizzazione e senso della misura. So come si redige un Curriculum e come si modifica di volta in volta a seconda delle richieste degli addetti alle selezioni del personale. So come ci si deve vestire e come si deve diffidare di chi offre posti di lavoro strapagati, perchè tanto culo non può piovere dalle pagine di un qualunque giornalino di annunci.
La ricerca di lavoro, dicono le migliori docenti di orientamento al lavoro, comincia da se’. Bisogna capire quali sono le proprie risorse e poi conciliarle con quello che si vuol fare. Evidentemente nessuno ha mai spiegato alle docenti che ultimamente è un po’ complesso riuscire a fare qualcosa che piace e che si sa anche fare. Di solito ci si accontenta della prima cosa che capita salvo poi scoprire che si tratta di qualcosa di immorale, come per esempio la tratta degli schiavi. Così assistiamo impotenti alla battaglia tra noi e la nostra coscienza e siamo rassegnati quando dalla nostra bocca viene fuori uno sputo diretto proprio sul viso del fetente datore di lavoro. In tanti anni di esperienza ho capito che il lavoro non cresce sugli alberi e soprattutto che è importantissimo curare la propria immagine. Proprio così.
Cercare lavoro con l’aria di chi ha bisogno di un lavoro non va bene. Questo non piace a nessuno. Ma andiamo con ordine. La ricerca comincia da amici e conoscenti. Tutti sanno che non hai un lavoro ma fanno finta di non saperlo e quando lo dici ti regalano uno sguardo pieno di rimproveri per averli fatti sentire nell’ordine: di merda, merde, come se avessero calpestato la merda. La faccenda per tanti versi è davvero utile perchè si capisce quali sono gli amici e quali no. Questa conclusione esclude gli amici che non possono dare una mano e quelli che dicono con chiarezza che la disoccupazione è un po’ un tuo problema. Generalmente il ragionamento chiave che sta alla base di questo genere di rapporti si conclude con una arringa insieme accusatoria e autoassolutoria che individua nella disoccupata l’unica persona artefice del proprio destino. Sia chiaro: questo ragionamento vale solo per quei reietti che non usano o non hanno un papà degno di tale nome che all’occorrenza è subito pronto a restituire il favore. Dopo essersi giocati gli amici, tocca ai nemici. No, non ancora. Quelli devono essere proprio l’ultima spiaggia. L’orgoglio è l’ultima risorsa da sputtanarsi.
Allora si continua con gli annunci. Se ne trovano ovunque: sul web, su carta. Ci sono siti e giornalini che su questo hanno fatto la propria fortuna. Così questi strabordano di annunci di lavoro in cui il lavoro è l’ultima cosa che si può trovare. Per un occhio non allenato alcune inserzioni sono veramente roba ghiotta. Poi si scopre invece che di stronzi è pieno il mondo. Tra questo genere di abbocchi, quello che sta al top della hit parade della presa per il culo è certamente l’invito ad accorrere per ottenere guadagni clamorosi e facili. Chiamare per chiedere di che si tratta non serve perchè chi sta dall’altra parte risponde sempre – appellandosi ad una riservatezza degna dei migliori servizi segreti – che non può rilasciare per telefono “questo genere di informazioni”. Si fissano allora decine di appuntamenti che servono a conoscere meglio le proprie città (e non in senso turistico) e a consumare benzina, soldi, suole delle scarpe, liquidi. Così disidratate e sopravvissute a numerose rocambolesche avventure (inseguimenti di autobus, giri infiniti per trovare parcheggio) si arriva a fare la fila in luoghi improbabili dove ad accoglierci c’e’ un tizio dalla faccia altrettanto improbabile che ti fa una attenta radiografia con l’occhio più intelligente che si ritrova e poi con naturalezza ti svela l’arcano: si tratta di un posto di venditrice porta a porta di qualcosa, di spacciatrice autorizzata che se va bene alla fine di una lunga giornata si mette in tasca un grazie e un arrivederci. Purtroppo la storia non finisce qui: lo stronzo offre anche un master di marketing (tutto incluso) per preparare i propri dipendenti e tutto ciò alla modica cifra di 350 Euri per 16 ore di lezione. Mandare questa gente a quel paese è davvero obbligatorio per tornare a casa con la sana impressione di non stare troppo perdendo il senso della realtà.
Altro genere di annunci sono quelli dei datori di lavoro “prudenti”. Ovvero gli specializzati nello sfruttamento a staffetta. Dapprincipio è la stessa trafila tranne per il fatto che ti dicono almeno quale è il misterioso lavoro che ti offrono. Questo potrebbe dare l’idea di avere a che fare con persone serie. Non è così, o non sempre lo è. Durante il colloquio emerge un aspetto insolito da trovare nei datori di lavoro. Il soggetto è “insicuro”! Essere donna in questi casi può essere fatale. Potremmo sentire sollecitato il nostro senso materno, la madre Teresa di Calcutta che si cela dentro ognuna di noi. Così ascoltiamo delle tribolazioni di questo strano personaggio che racconta di ex dipendenti malefici, cattivi, addirittura disumani. Allora potremmo essere tentate dallo sconfiggere quello strano imprinting dato da chi ci ha preceduto ed è lì che bisogna assolutamente fermarci. Questa categoria di cafoni è davvero una delle peggiori. I furbi giustificano con le presunte cattive esperienze l’attitudine a far lavorare la gente in “prova” per un determinato periodo al termine del quale concluderà che il dipendente è reo di chissà quale altro delitto ed eviterà così di dare lo stipendio ed altri inutili fastidi. I dipendenti “volontari” a staffetta sono spesso utilizzati nel mondo della ristorazione, nei luoghi di ricezione turistica minore (piccoli hotel, pensioni, villaggi e residence), nei ruoli di concetto senza specializzazioni, nei compiti di assistenza agli anziani o al capezzale di moribondi di ogni genere. Ovviamente questo genere di cose possono comunque avvenire in ogni luogo e in qualunque genere di professione. L’unica cosa che ho imparato nel corso di tanti anni di ricerca è che in questo settore le sorprese non hanno mai fine.
La terza brutta razza che si può incontrare attraverso gli annunci è fatta di sfruttatori a vario titolo con finalità legate al benessere dei propri organi sessuali: i Pig Man! Porci senza ali che offrono e richiedono attenzioni con o senza lavoro. Animali di questo genere li si può trovare un po’ dovunque e non si possono riassumere tracciando i loro generici identikit. Gli annunci lasciano un po’ inebetite anche quando si intravede in essi qualcosa di reale e plausibile.
Cercare un posto di segretaria, per esempio, è un’impresa senza fine. A volte la cercano con esperienza e però la vogliono anche in grado di fare il caffè dall’orecchio destro e di comporre un’opera lirica con l’ascella sinistra. In quei casi è raro che questi selezionatori concedano il lusso di un colloquio, uno sguardo, una parola. A volte, raramente, accade che qualcuno dica di si e allora lo si può vedere e, se non gli fai troppo schifo, anche toccare con una stretta di mano formale e cortese. In questi casi bisogna essere perfette. Andare a questo genere di colloqui senza un buon vestito non rammendato e un paio di scarpe alla moda può risultare davvero irreversibilmente controproducente. Essere pronte e perfette per ogni evenienza è però un lusso di poche elette e per lo più le convocazioni a questo genere di colloqui arrivano senza preavviso e quando ci si trova nella condizione peggiore da mostrare al prossimo. Impossibile chiedere di rinviare l’appuntamento che già pare un miracolo che lo concedano. Così ad un esame non approfondito della nostra immagine potremmo risultare davvero delle cesse. Quando c’e’ di mezzo un lavoro vanno a farsi benedire tutte le idee di donne emancipate, autodeterminate e contro la logica superficiale di sfruttamento dei corpi delle donne. Non ci ricordiamo più neanche del fatto che è davvero assurdo legittimare e avallare la pretesa che chi è disoccupato non deve apparire tale. Così non basta più essere certe delle proprie capacità ma siamo colte da un senso di scoramento misto ad angoscia che sarà il nostro maggior nemico durante ogni fase del fatidico giorno del colloquio, compreso di “pre” “durante” e “post”. Andando avanti con l’età è anche più difficile rifarsi il look in poche ore perchè non basta darsi una aggiustatina ma per lo meno sarebbe necessaria una lunga seduta dall’estetista, dal parrucchiere, dallo psicanalista, da qualcuno che può prestarti i soldi per comprare vestito e scarpe nuove e nei casi più estremi da un chirurgo plastico. Può capitare, e in realtà è la normalità e non l’eccezione, che neppure se vai a questi colloqui bella come il sole, curata e profumata come un fiore, tanto perfetta che neppure tu hai la più pallida idea di quale ruolo tu stia interpretando, il possibile auspicato datore di lavoro ti trovi “idonea” al ruolo. Crisi di identità a parte, in questo caso – quando cioè si ritiene di essere perfette per quel ruolo e migliori di chiunque sia stato chiamato a colloquio fino a quel momento – il problema è un altro.
Ai datori di lavoro le dipendenti piacciono vergini! A parte che per una irriguardosa e davvero ridicola agevolazione fiscale – a fronte dei benefici che una lavoratrice con esperienza potrebbe effettivamente portare -, l’unico vantaggio dell’avere una dipendente in età da apprendistato è quello di far godere la vista e l’ego dei datori di lavoro così mai sottoposti a critica. Ma ai datori di lavoro le dipendenti piacciono anche sessualmente adulte ma sterilizzate o ben disposte se viene loro richiesto di annodarsi le tube del falloppio per non rischiare di lasciarsi tentare dal richiamo della natura.
Per le donne over 35 anni rimane solo il fantastico mondo di “Retravailler”, nome adottato da tante piccole e grandi organizzazioni che offrono una riqualificazione delle donne dis-occupate in tarda età per agevolare, a parole, il loro reinserimento nella work-land riservata alle donne prossime alla menopausa. In questi luoghi infami, limbo di quello che rimane in spirito delle donne che stanno coming back, viene da chiedersi quanto bisogna patire per arrivare a trovare un cavolo di posto di lavoro normale con stipendio, anche basso, e tutto l’abc dei diritti non violati. Per chi crede in Dio forse ci può essere la consolazione di un paradiso di eguale misura; chi è Buddhista immaginerà di potersi reincarnare nella madre di uno dei merdosi datori di lavoro incontrati in questa vita per poter godere del male fisico che le piacerà infliggergli; chi crede in un ordine superiore serberà la convinzione che quello che accade è necessario a garantire l’ordine e l’armonia delle cose. Chi crede solo nelle proprie “finite” risorse di una unica e “finita” vita ha davvero poche alternative: la rivoluzione, l’ironia o il suicidio. Gli sportelli “Donna” di Retravailler o dei Centri per l’Impiego (che in Italia sono spesso la stessa cosa) offrono ancora altri corsi di orientamento al lavoro, perchè una disoccupata che non ha abbastanza coscienza di essere disoccupata e del perchè è disoccupata non va bene. Meglio darle tutti i motivi per poter darsi alla droga o all’alcool. Offrono poi corsi di formazione per insegnare cose che chi ha un discreto livello culturale sa già e chi non ce l’ha non le acquisisce e soprattutto non sarà in grado di utilizzarle per trovare un lavoro dove esistono infinite concorrenti vergini, di “bella presenza”, con scolarizzazione borghese impartita dalla nascita.
Esiste un altro genere di corsi di recupero tardone che tra tutti merita la medaglia di trovata più idiota in assoluto: si tratta della formazione che insegna a fare niente po’ po’ di meno che la imprenditrice. Ovvio no? Se una non è in grado di trovare un lavoro perchè non lanciarsi nella creazione di una impresa che potrebbe addirittura dare lavoro ad altre? Il ragionamento non fa una grinza tranne che per un fatto che – senza voler essere disfattista – non è per nulla secondario: i soldi chi ce li mette? Già, perchè se la disoccupata è tale, quale sarà l’istituto di credito al limite dello strozzinaggio legalizzato che concederà un prestito quando l’unica garanzia che la non occupata in questione può dare è quella del possesso in vita degli organi vitali all’occorrenza disponibili da mettere all’asta? Nessuno. E senza soldini per avviare il lavoro non si possono richiedere finanziamenti da quelle fonti a sostegno dell’imprenditoria femminile cui poche elette possono accedere. Senza i finanziamenti non ci può essere impresa. Senza soldi non c’e’ niente. E allora c’e’ da chiedersi perchè mai si propongono corsi di formazione sull’imprenditoria femminile alle disoccupate come fosse l’unica alternativa praticabile con il mercato del lavoro che viaggia cento all’ora a porte chiuse. Forse perchè ci sono altre donne tutt’altro che realmente disoccupate che attraverso questo stratagemma possono fruire di finanziamenti pubblici da indirizzare nelle proprie tasche? Forse! Ma quello di chi si arricchisce grazie alle erogazioni a senso unico dei rubinetti istituzionali è un altro capitolo tutto da scrivere.
Quando si è esaurita tutta una edicola di giornalini delle varie pulci, l’alternativa rimane solo una: stabilire quale deve essere l’oggetto della propria persecuzione e dunque inviare curriculum a tappeto nella speranza che qualche anima pia risponda qualcosa di diverso dal solito: “Grazie della sua attenzione. Il suo curriculum sarà inserito nella nostra banca dati.” Che equivale a dire: “Aho’ bella, ma chi t’ha chiesto niente! ‘Sto curriculum finisce nella monnezza!”
Eppure pare facile: decidi di tentare la strada del commercio? Allora scegli un po’ di negozi in cui pensi di stare a tono con il colore dell’arredo interni e mandi il curriculum. Niente di più inutile, solo che se non si sa che altro fare questo serve almeno ad esercitare la propria capacità di contatto con il mondo esterno e la propria abilità di redigere meravigliose, tragicomiche, devastanti letterine di presentazione. In ogni caso la faccenda non si chiude qui perché quando ci si rende conto che il culo è diventato a forma di sedia e che il capello ha assunto una colorazione grigio fumo di Londra per mancanza di raggi ultravioletti scatta la molla dell’iperattivismo senza meta. E’ il porta a porta fai da te. Non si vende nulla tranne che se stesse. Chissà perché poi si è in qualche modo convinte che presentarsi di persona aiuta e che la propria faccia intelligentissima portata a spasso con l’espressione della arguta, furba e accomodante disoccupata possa di colpo convincere chiunque che: ops, proprio tu sei quella che cercavano! Tentar non nuoce, anche se in effetti dopo un po’ di facce perplesse nuoce eccome: all’amor proprio e all’umore. Si può andare in tutti i ristoranti, in tutti gli alberghi, in tutti i negozi possibili e immaginabili e dopo un po’ ci si ritrova a guardare nei citofoni delle case per vedere se c’e’ qualche studio di un professionista che può aver bisogno proprio di te. Il mestiere di chi “cerca lavoro” qui tocca davvero un fondo senza fondo e praticare una simile funzione richiede grande coraggio, tenacia, determinazione. La forza viene fuori tutta quanta con la stessa ostinazione di chi tenta di sopravvivere alla fine del mondo. Si va avanti con una cartellina stracolma di copie del proprio curriculum a collezionare sguardi perplessi e atteggiamenti che sempre più ti fanno sentire come una accattona da due soldi. Cosi’ finiscono le giornate del volantinaggio curriculum e si torna a casa distrutte e felici di avere almeno un posto dove dormire. La cosa che si impara da questo tipo di esperienze è che se non si va in giro presentate da qualcuno, che sia amico di amici o fidato conoscente, non ti cagano neppure di striscio. L’andare a zonzo va dunque considerato solo come uno sport per stare un po’ all’aria aperta.
Quando ogni speranza sembra svanire, hai già finito di studiare come si fa il nodo scorsoio per il cappio e hai calcolato al millimetro in un sistema di assi cartesiane (perché sei disoccupata ma colta, fino alla fine) la distanza tra il palo e il tavolo e ci hai piazzato in mezzo una massa solida che ipoteticamente dovresti proprio essere tu: proprio in quel momento ti giunge la informazione che c’e’ qualcuno che può aver bisogno di te. Giubilando giubilando e recitando preghiere laiche perché è proprio vero “allora Dio esiste!” corri a vedere di che si tratta.
Eccoli i nemici. Infine arrivano anche quelli. Ti guardano e riguardano gustando l’umiliazione che leggono nei tuoi occhi. Perché a rivolgersi ai nemici si rinuncia alla dignità e si mette l’amor proprio sotto piedi che non sono propriamente tuoi. Sono quelli che gli urlavi in faccia disprezzo e slogan non politically correct. Eppure sei lì. Con la migliore posa da donna di mondo che sa come cambiare abito e ruolo. Ti offrono un finto part time. Quattro ore al giorno sulla carta che giocano al raddoppio perché “se non sei capace di fare questo semplice lavoro nel tempo stabilito devi recuperare!”. Il contratto è tipico da atipiche. Non ci si può ammalare, non si ha diritto alle ferie. Se sei in cinta sono cazzi tuoi. A volte sono lavori a cottimo e non sempre vengono riconosciute le ore di lavoro dichiarate. Tutto questo non accade in Cina. O meglio forse è quello il luogo di ispirazione. Ufficialmente si tratta di una conquista delle donne in lotta per attuare la politica dei tempi: i propri. Si, perché solo donne bianche di estrazione aristocratico borghese, sebbene illuminate, potevano fornire alle imprese gli argomenti per farci sodomizzare, ghignando, come se ci facessero un favore. Non si era chiesta la restituzione dei tempi per essere più donne, più madri, più tutto? L’abbiamo ottenuta. Ce l’hanno data e l’abbiamo presa… Ora siamo flessibili, povere, mai emancipate dal bisogno.
Esistono datori di lavoro che stipulano solo contratti a progetto: quelli da precaria del precariato, quelli che si rinnovano di mese in mese per non farti abituare troppo ad una idea di stabilità, quelli che sulla carta ti lasciano libera anzi “non subordinata” e nella pratica ti mobbizzano sino a farti praticare l’esercizio dello straordinario coatto non pagato con orari obbligati da sportello al pubblico. In questo ambiente vige l’omertà peggio che a Corleone. E’ buona regola non parlare tra dipendenti atipici, anzi tra “liberi professionisti” del nulla. Mai lamentarsi, mai rivendicare diritti. Mai minacciare vertenza. Mai mettere in mezzo i sindacati. Non sto parlando dell’ambiente di lavoro diretto da Bernardo Provenzano. Parlo delle Cooperative sociali, delle Organizzazioni umanitarie non governative, delle Onlus, delle Associazioni di volontariato, delle donne che lavorano per altre donne, delle immigrate che lavorano per Coordinatrici e responsabili di progetto che sembrano venire da una lista di speciali femmine allevate per ottenere un impiego ai tempi del Terzo Reich, delle organizzazioni di sinistra che – così dicono – difendono la Costituzione Italiana e hanno alle spalle anni e anni di dura battaglia politica in favore dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici.
In definitiva è meglio vestire i panni e la posa mistica della schizofrenica Giovanna D’arco e invocare il perdono dell’Opus Dei per aver talvolta parlato male di loro. La regola è semplice: Se devi prostituirti, fallo per bene!