(Pubblicati per le Edizioni della Battaglia)
Terra di Sicilia
E’ terra di Sicilia
quella che te la senti appiccicata addosso;
che impone l’espropriazione del corpo
ospita feti stracolmi di maschile ostentata ottusità.
Quella che se sei donna
e parli come una donna
ti dicono che hai rotto il muro del silenzio
(o che ragioni con un utero infecondo);
Che se vesti il lutto
perchè hanno ucciso
un’idea in germe
sei una pessimista,
che se le donne
vogliono partecipare ai cortei
deve trattarsi solo di quelli funebri.
Che se hai bisogno
devi farti “stato”
o devi sposare
chi lo stato
lo fa solo per se’.
Che se non battezzi la figlia
nel nome dei padri di cosa nostra
è illegittima prole
che il genitore
(fedele al concordato)
destina alla spartana rupe,
(mercato di lercie vagine).
E’ terra di Sicilia
quella che te la vivi male.
Che ti costringe a scegliere
tra spazi inesistenti.
Che se cammini sola
devi aver paura
e
non ti senti libera.
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…E il suo battito si distinse dal mio
Sentivo dentro me,
l’insofferenza di chi vuole dare voce
al proprio bisogno di giustizia.
Già da allora,
e nel frattempo un battito si confondeva al mio.
Ti raccontavo speranze
e intonavo note d’angoscioso malessere.
Ti descrivevo colori
contrastanti l’omologazione,
sfumature diverse non assuefatte
da iridescenti prevaricazioni.
Ti costrinsi fuori
dall’argine dei rapporti sessuati
e ti indicai gli occhi di un sole col sorriso
e di un nebuloso cielo.
La mia inquietudine era stimolo a vivere
e la rabbia impulso a combattere.
Mi costrinsi a dare voce alla coerenza
e rivendicai il diritto a sentire il mio corpo offeso.
Fu un altalenante insieme di acrobazie di umori e rimozioni.
E ancora sentivo il tuo battito
confondersi col mio.
Non potevo insegnarti la “reazione” se io ancora subìvo.
Non la piena cognizione di te
se non sapevo indicarti un percorso.
Scelsi la strada solitamente non battuta,
tracciai distanze e cercai in me un modello di riferimento.
Scrissi nella sabbia, per te,
parole non contenute
in un sapere già definito,
imparando ad alimentare attraverso
un insolito cordone ombelicale.
Consapevole di essere responsabile
del produrre nuove figlie,
sentii il peso
dell’insofferenza a riconoscersi,
più che la certezza di aver trasmesso
volontà di imporre.
Tracciasti un segno sulla sabbia
e il tuo battito si confuse con il mio.
Il rosso di una fragile rosa
ma anche del sangue versato.
L’azzurro nei tuoi occhi di cielo,
lo stesso cielo
sulle lacrime di un’alba
che tarda a venire.
Percorsi un sentiero
ed un cartello
a rendere visibile un bisogno:
“Condividerò un senso di impotenza non irriso di vittimismo!”
Uccidi un fiore a falciarlo dal suo prato.
Morrà la rondine condannata ad un’umana prigionia.
Le urla di una donna che piange il proprio figlio: il silenzio!
Ecco, vedi quella è indifferenza.
Il sibilo di un colpo
(le imposte frattanto chiuse).
Quella è paura.
E mentre ti insegno la violenza del silenzio
ascolto i nostri battiti
tentando di distinguere, tra essi, il tuo.
Bianco come le lenzuola
a coprire corpi dilaniati
dalla traccia di un disegno privo di colori.
Osserva, il potere ne è l’autore.
Ho schierato la mia anima
dalla parte dei morti,
per sentirmi viva.
Per permetterti di vivere.
Stringimi la mano.
Voglio insegnarti a non uccidere…
E mentre penso a mille madri
responsabili di trasmettere culture d’odio.
ascolto attenta
e sento il tuo battito distinto ora dal mio,
e tu m’insegni, infine, figlia mia.