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La solitudine della pelle

Il sesso è sesso, mi dice già un amico. Racconta della sua vita complicata. Lavora da operaio, ha una compagna giovane, appena laureata, che cerca un lavoro e non lo trova. La lascia la mattina prima di rivestirsi con la divisa sporca e ha come l’impressione che lei proprio non avverta quel bacio sulla fronte, una tenerezza vera, ché t’accompagna per tutta la giornata, e pure su di lei scivola via come non fosse niente.

La precarietà deprime e la dipendenza pure ma lei è in bilico. Non sa che cosa fare. Non dirige i tempi, le scelte, la sua vita. E lui di tutto questo sa poco o nulla. Non vuole tornare dai suoi – dice – e può restare con me – egli spera. Chissà cosa la renderà felice. Cosa ha importanza e cosa no.

Quello che lui sa, per quanto di quella donna capisca le complessità, è che quando torna e la vede immersa nei pensieri, in una posa stanca, come se lei avesse lavorato e lui fosse stato al mare, a vedere l’orizzonte e il cielo limpido, vorrebbe scuoterla, abbracciarla, scomporla, provocarla.

Fai l’amore con me – le chiede. Lei lo guarda, inespressiva, come fosse inopportuno, quasi fosse disturbante per la sacralità di quello stato d’animo, e con indifferenza rinvia la sua attenzione ad un programma tv sciocco.

Ma davvero volevi fare sesso a prescindere dal fatto che lei fosse depressa? – chiedo io.

Il sesso è sesso, dice lui, e questa cosa di leccarsi le ferite, di restare lì a morire mentre è bello reagire, tornare in vita, amare, non è mica sana. Vorrei vedere te a tornare a casa, dopo una lunga giornata di lavoro, e vedere una che definirla sveglia è un eufemismo, immobile e infastidita e paurosa, perfino, di qualunque novità. Le ho chiesto di uscire, l’altra sera, volevo farle vedere che il mondo fuori è bello, volevo si arrabbiasse per una delle cose che la indigna, volevo che fosse felice per qualcosa, volevo mi cagasse, che trovasse interessante quello che ho da dirle, volevo che tornasse perchè, in effetti, io mi sento solo.

E tu pretendi lei risolva per far stare bene te? – domando.

E lui: – Pensi davvero esista qualcuno che speri nella “guarigione” di una persona cara per altro bene che non sia il proprio?

Mi turba questa cosa e poi ci penso. La maniera frettolosa delle madri che misurano la febbre ai bimbi e poi li imbottiscono di farmaci perchè deve passar presto per conciliare tutto, e il disagio che viene rimosso quando si ha un parente disabile che non si dichiara mai come fosse un limite perché la società impone che prendersi cura sia un obbligo e dunque diventa crudele, inaccettabile, chiunque dichiari il proprio egoismo anche se poi continua a fare ciò che deve. Ché bisogna essere devotamente inclini alla cura ma senza lamentarsi, perché esibire la verità a priori è assai più grave che portarsi dietro quella “croce” traendone un alibi sociale, facendosene scudo a garanzia di un ruolo da agnello sacrificale tanto meritorio di riconoscimenti nella nostra società.

Sarà vero che vogliamo accanto una persona intera e allora curati, fai in fretta, sbrigati perché io dovrò pur dirtelo che proprio non ti reggo e non resisto e non mi lascio ricattare e non mi sento nobile se taccio e se per ipocrisia ti dico che la mia dedizione nei confronti tuoi è al massimo.

Si, ti capisco, dico infine, cos’è che vuoi?

Toccarla. Voglio toccarla. Voglio che mi tocchi. Come le spiego che la mia pelle è sola e che ho bisogno della nostra intimità?

Posted in Precarietà, Racconti 2012, Sessualità, Storie precarie.

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