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L’emigrato siciliano e la donna nigeriana

Il treno è puntuale. Bagaglio, posto a sedere, solita acquisizione dati per memorizzare le facce che ti stanno attorno. Perimetro sotto controllo. Si parte.

Il treno viaggia decentemente fino ad un certo punto. Poi comincia il calvario. Napoli è la bocca dell’inferno. Il treno ritarda alla partenza di due ore e mezza, carica persone come fossero sacchi di patate, ammassati in ogni dove, tickets di viaggio garantiti a chi viaggerà in piedi e trascorrerà la notte ad assorbire la merda depositata per terra.

Viaggio che fai e personaggi che trovi. Il trevigiano sostiene che a treviso funziona tutto anche se il sindaco è un po’ sopra le righe. Come dire: se i servizi di una città sono efficienti i sindaci possono anche permettersi di parlare di sterminio dei rom. Una specie sacrificio umano come ricompensa all’efficienza amministrativa.

La napoletana è vestita come noemi – la noemi di papi – e va in vacanza a cercare marito. Per il posto di lavoro già ha provveduto tramite raccomandazione.

Il siciliano emigrato in veneto parla infastidito del razzismo che dilaga nella città nella quale lavora. Dice che i meridionali non sono considerati granchè bene e poi alza la voce ed esige che una nigeriana con bambino ceda il posto ad un italiano – cioè lui – invece che occupare uno spazio che peraltro ha pagato. Schizofrenie.

Il treno non parte ancora e non si respira. Non si capisce qual è il guasto. La gente scende a fumare. Si parte. Tutti risalgono. Falso allarme. Tutti ridiscendono. Altra sigaretta. Si parte. Di nuovo su. Ennesimo falso allarme. Ancora giù. Il balletto continua per ore. Continuiamo a restare senza aria. Qualcuno decide di hackerare i finestrini, quelli sigillati con le chiavi da controllore che non le puoi aprire se il controllore latita. Uno, due, tre, quattro, cinque finestrini hackerati. Un po’ d’ossigeno certo male non ci fa. Arriva una autoambulanza. Qualcuno si è sentito male. La folla comincia a inveire contro la polfer che viene con funzioni di ordine pubblico. Nessuno spiega quello che sta succedendo. Molte ore dopo di nuovo l’annuncio. Si parte. La gente risale e per scaramanzia tiene la sigaretta a pelo di porta. Fanno sul serio, il motore è avviato. Via la sigaretta e ognuno ai propri posti.

Il sud comincia da lì, dalla rassegnazione che “tanto lo sappiamo che le cose funzionano così” all’incazzatura contro le ferrovie e contro lo stato bugiardo che nella testa di un immigrato siculo in terra veneta si traducono magicamente nella semplificazione che spiega tutto con la presenza di una negra a bordo. Emigrare con l’idea che la civiltà sta nelle terre di chi ti colonizza, perdendo così la propria identità culturale significa anche essere terreno facile per reimpianti di parole e pensieri leghisti.

Una persona che viene dal meridione e che non sostanzia la propria vita con i valori e il senso di pienezza che gli viene dall’avere un radicamento che lo autorizza a manifestare una alterità diventa un buco vuoto che chiunque può riempire.

In calabria il treno si ferma ancora una volta e l’aria che esce dalle fessure è “fitusa”. Ci fanno respirare cacca condizionata (invece che aria condizionata). Il ritardo oramai è più che cronico. Fuori dallo scompartimento è un tappeto umano. Raggiungere il cesso senza schiacciare qualcuno è una impresa difficilissima. La zona toilette è il girone dei fumatori. Per terra una donna con i denti da tossica e lo sguardo da tossica. Le sue gambe sono lastricate da ferite. I suoi piedi sono rovinati dalle escoriazioni. Accanto a lei un uomo con il triplo dei suoi anni che insinua le mani nel reggiseno. Lei lo allontana. In piedi un’altra ragazza è contesa da almeno tre maschi. Se ne appropria uno che dichiara la propria cittadinanza italiana. Il water è inavvicinabile. Essere maschi in questi casi è veramente un gran vantaggio.

Scompartimento da raggiungere, una vittima al passaggio. Scusa. Ok, no problem. Un’altra noemi in pectore parla della puzza che viene dalla zona con nigeriana.

Si riparte. Tempo previsto per traghettare: svariate ore. Impieghiamo meno tempo, hanno pietà di noi. L’alternativa sarebbe stata andare a nuoto. La nave ha finito la scorta colazione. Digiuni e incazzati sbarchiamo in terra sicula.

Si narrano le epopee di altri viaggi. Altri treni che hanno lasciato un segno tangibile nelle nostre esistenze. Quello con le porte degli scompartimenti rotte. Quello con la cuccetta traballante. Quell’altro con l’animale morto dentro la cuccetta. Quello in cui c’era l’anziana signora che viaggiava abitualmente con martello. Quello in cui la sicilianità si manifestava a partire dalla ritrosia nel mostrare i propri malesseri fisici fino al coro di “io ho il cancro” “io di più” “io ne ho avuti due” “io ho avuto un cancro che un cancro così non ce l’ha avuto mai nessuno”.

Si manifestano intenti politici: proporre al ministero ai beni culturali di finanziare il mantenimento in vita dei carri bestiame per il sud e di organizzare dei tour a pagamento per soggettisti, scrittori e affini. Treni così sono strapieni di personaggi e spunti da scriverci per pagine e pagine. Un reality “il treno dei non-famosi” i quali a quel punto almeno potrebbero viaggiare GRATIS invece che pagare quota piena come paga l’utente veneto in veneto e il lombardo in lombardia avendo diritto però ad un trattamento assai diverso.

Viaggio quasi finito, una via crucis, ore di ritardo inclusi. Le facce stravolte. La stanchezza che già dal traghetto si è trasformata in rincoglionimento. Come per le donne che partoriscono, imbottite di ossitocina che fa dire loro – dopo, urla, bestemmie, dolori e “maippiù, giuro maippiù” – che comunque ne è valsa la pena, così i siciliani che tornano a casa scordano di aver dichiarato di voler fare causa alle ferrovie, di voler fare la rivoluzione, di voler sputare in faccia ai rappresentanti del governo e diventano mansueti e felici. Come cani ai quali hai dato un osso dopo averli tenuti rinchiusi in un canile-lager. Come carcerati ai quali hai concesso la luce dopo decenni di isolamento.

L’unica che resta sconfitta, delusa, stanca e che non trova sconti nella tappa di arrivo è la donna nigeriana che si ferma a giustificarsi per il posto che ha occupato. Lo dice più per dare una ragione d’orgoglio all’unica persona che l’ha difesa che per condividere la frustrazione. La donna nigeriana non è a casa perché la sua casa è altrove. Se sei un emigrato meridionale e non ricordi come è difficile stare lontani da casa: sei un emigrato stronzo. Ecco: volevo dire solo questo.

Posted in Racconti 2009, Racconti palermitani.

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