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Il dovere di essere invisibile

E anche per oggi l’ho vista tornare così come l’avevo vista andare, anzi avevamo fatto un pezzo di strada assieme su un bus di quelli che arrivano con mezz’ora di ritardo e ti mollano nel punto più lontano al posto in cui vuoi arrivare.

Ha sempre quella espressione compita, sistemata, qualche ruga d’espressione, quelle mani arrossate, la sua scarpetta da signora e la busta con le pantofole e altri attrezzi da lavoro.

Non so come faccia ma quando torna è sempre uguale a prima, come se non avesse passato ore e ore a pulire, faticare, lustrare, lavare, nella casa di quella tal signora che è tanto brava e tanto buona e guai a parlarne male perché le da lavoro da una vita e non manca mai ad un pagamento.

Pulisce bene, la passeggera del bus, e la sua datrice di lavoro le ha aperto il portafogli e la sua rubrica telefonica, perché di donne che hanno bisogno dell’aiuto di una lavoratrice affidabile, puntuale, che viaggia a tutte le ore, con il sole e con la pioggia, con la febbre o in salute, che non si lamenta mai, come se non avesse una vita, una famiglia ad aspettarla, dei figli che ogni tanto la stressano quando rientra in casa, di donne che hanno bisogno di una così ce ne sono tante.

Oggi l’ho vista arrampicarsi su un posto a sedere, a stringere la borsa per proteggere il guadagno di una giornata, ad essere gentile e composta nel rivolgere un saluto ad un italiano sprezzante.

Poi è arrivata una straniera. Straniera come lei ma di un’altra terra. Pelle scura, vestita con colori accesi, di quelle che non vogliono passare inosservate, che non accettano di restare invisibili a fare le immigrate che si mimetizzano tra i tanti schiavi che vedi transitare ogni giorno.

La prima straniera, tanto gentile con le datrici di lavoro e con quell’odioso italiano passa il tempo a digerire frustrazioni e arriva il momento in cui ha bisogno di sfogarsi con quelli che occupano un gradino della scala sociale forse più basso del suo.

Perché quando non vivi bene, se hai problemi, la solidarietà e tutte quelle storie di umanità e condivisione di pani e di pesci se ne va in frantumi.

E’ una storia buona per i borghesi snob quella di pensare che i poveri amano i poveri, gli stranieri amano gli stranieri, eccetera eccetera.

Così, esattamente come certe donne che invece che prendersela con gli uomini che le violentano e le mortificano, passano il tempo a fare istigazione al linciaggio delle altre donne, la straniera, una brava persona senza dubbio, l’ho vista concludere la sua giornata nel modo peggiore di tutti.

Quella ragazza, troppa, troppo colorata, troppo viva, ma come si permette di essere così viva in mezzo a tanta gente grigia e quasi morta, è passata accanto alla donna è per uno scossone del bus le è quasi finita addosso.

La donna ha reagito alla paura, con quella borsa ben tenuta e il timore di perderla o di vedersela rubare, e non ha trovato nulla di meglio che ricacciare indietro quell’ulteriore peso che il fato o chissà aveva deciso di consegnarle e l’ha chiamata puttana.

L’ha proprio detto bene, chiaramente, scandendo ogni sillaba. Perché se ti permetti di vivere e cedi ad uno scossone del mezzo pubblico non puoi che essere chiamata così.

Perché se vuoi sopravvivere devi attaccarti il cemento ai piedi, passi fermi, ci fosse anche il terremoto, e soprattutto, che diamine, vedi di vestirti in maniera “adeguata”. Sei in un paese straniero, perdio, e a quelle come te non è permessa la fantasia e il sole addosso.

Spegni quella luce, bagascia, non ti venisse in mente di illuminare anche me. Spegni quegli occhi orgogliosi e inchinati, schiava, resta piegata al cospetto del mondo “civile”. Non ti venisse in mente di fare scoprire anche la mia presenza.

Io me ne sto qui, non tento una evasione, non faccio nulla per fare arrabbiare i miei carcerieri. La tua ribellione mi mette in pericolo.

Dovrebbero vietare il colore rosso, giallo e arancione per tutte le straniere. E smettila di ridere. Mi irriti. Vedrai come la vita ti spezzerà. Anzi te lo auguro così vedrò sparire quella risata sfrontata dal tuo volto.

La donna l’ho vista infine pronta a non perdere la sua fermata. Fotografava rapidamente le reazioni dei presenti. Lieve consenso sociale, qualche espressione infastidita, perchè queste straniere, accidenti a loro, potrebbero andare a litigare in un angolo buio.

Borsa stretta, passo veloce, la scarpetta sempre lucida, la busta con gli attrezzi sotto braccio. La giornata è finita. E le ha concesso anche un diversivo.
Per domani qualche accattona da umiliare sarebbe auspicabile… perché è davvero brutto portarsi la frustrazione a casa.

Varcata la porta. Tolte le scarpe. Indossate di nuovo le pantofole. Si ricomincia a fingere. Perché i datori di lavoro di una donna non finiscono mai…

Posted in Racconti 2011, Storie precarie.