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Minuzza

Minuzza, la chiamavano, da Filomena. L’hanno seppellita ieri e per disgrazia è finita nel casciolo vicino a quello dell’odiato marito.

La sua vita me l’ha raccontata la nipote, una vecchia compagna di scuola, di quelle che sono rimaste in paese a farsi la famiglia mentre le altre dopo il diploma sono andate tutte all’università.

Minuzza faceva collezione di parole, come io faccio collezione delle storie delle donne, perché era convinta che conoscerne centomila era meglio che conoscerne cento.

Suo marito invece ne conosceva poche e quando Minuzza ne pronunciò una più del necessario le mostrò di cosa era fatto l’odio.

Perciò lei segnò in un quaderno le frasi che poteva dire senza conseguenze e custodì in testa tutte le parole pericolose.

Ne accumulava tante, una dietro l’altra, e poteva raccontarle solo alla figlia che invece che esserle grata gliene fece una colpa. Perché di troppe parole si può morire e quella figlia in effetti patì le pene dell’inferno con un altro uomo dal vocabolario limitato, e poi anche fuori dove la gente la giudicava male perché era troppo ‘struita.

Ad ogni modo la figlia di Minuzza sopravvisse e quelle parole arrivarono fino alla mia compagna di scuola che forse per le paure trasmesse da sua madre perdette molto dell’entusiasmo della nonna. Perciò invece che studiare si sposò.

Quando l’ho vista al funerale non avrei mai immaginato di poter riassumere così la vita di tre donne in lotta con il mondo delle parole, quello stesso mondo che mi fa intera tutti i giorni. Ed è una cosa che giudico serena perché quel mondo a me l’ha restituito un padre che mi regalava libri invece che altre cose.

Che le parole avessero un significato partigiano lo scoprii anch’io tanto tempo fa, quando compresi che il gioco del dizionario che mio padre mi faceva fare non era una cosa che mi avrebbe preparata a essere accettata dal mondo.

Mio padre educava una sovversiva, una che sapeva troppo, una che conosceva il contenuto di diecimila libri e riassumeva in testa milioni di parole in varie lingue, una che metteva in discussione l’esistenza stessa dell’accademia della crusca, custode di parole maschili dove invece era necessario inserire un sapere che rappresentasse anche me. Non c’è pena sufficiente per punire un simile reato. Talvolta, lo vedete, viene giudicato un crimine terribile, come se la conoscenza fosse nemica degli esseri umani quando invece, forse, è nemica solo di chi specula sull’ignoranza.

La storia del mondo è fatta di centinaia di migliaia di Minuzze che hanno dovuto fingere di non conoscere le parole, che sono state punite perché ne conoscevano troppe, perchè non ricoscendosi in quelle che già esistevano ne inventavano di nuove, che sono state ostacolate perfino nella trasmissione di quel sapere perché c’è stato sempre chi ha imposto un indegno copyright sull’alfabeto e sui pensieri e perché quando quel vincolo veniva aggirato chi si appropriava delle parole trovava comunque una società educata a temere i consapevoli e a premiare gli ignoranti.

Le parole sono come l’acqua, come l’aria, come il cibo. Non se ne può fare a meno e troppe volte penso alla dieta imposta alle altre donne come il modo per mantenere quelle donne in schiavitù. Se non sai, non ti ribelli. Se qualcuno sa viene censurato.

Mio padre mi ha cresciuta per non essere schiava. Mia madre mi ha cresciuta per essere una persona in grado di reagire di fronte ad ogni sopruso.

Per questo oggi voglio ricordare Minuzza, questa donna che ha lottato da sola e in silenzio, imponendo una censura come tangente per la sua sopravvivenza, perché di Minuzze non ce ne siano mai più e perché tutte le donne come lei non trovino nel mondo un esercito di ignoranti a difendere i potenti.

Oggi le donne devono essere in grado di dirlo: vogliamo frequentare chi non teme le parole. Vogliamo avere a che fare con chi non teme la conoscenza.

Io so. E non so mai a sufficienza. Come diceva qualcuno assai più vecchio di me, so di non sapere. E per questo voglio sapere ancora di più. E qualunque ostacolo si frapporrà tra me e la mia sete di sapere sarà affrontato, aggirato, sconfitto perché milioni di parole vincono su poche decine.

Perché la lotta di donne come Minuzza contro i mille censori che ci ostacolano ogni giorno è l’unico strumento per evolverci e progredire.

Tutto il resto è conservazione di privilegi di ignobili detentori di un potere, primo tra tutti quello di bruciare libri, spegnere le voci delle donne, chiudere a chiave intere biblioteche.

E la chiave è fatta di parole. Tra le tante, scegliete quelle delle donne. Basta conoscerle. Basta non fermarsi.

Posted in Racconti 2010, Racconti palermitani, Storie violente.